L’ita(G)liano
attuale tra grafia e pronuncia (prima parte)
Prendendo
spunto da alcuni articoli di Coletti riguardo la lingua italiana, ho
inteso affrontare questo interessante argomento che mai vedrà arrestare la sua
evoluzione: la grafia e la pronuncia della lingua italiana.
Anzitutto,
ciascuna lingua, che si possa definire viva, è caratterizzata da due emissioni da
parte del “parlante” ovvero quella scritta e quella orale. Sebbene tra queste
due dimensioni se ne calino altre di tipo intermedio tra cui quella che
Nencioni ha definito di recente lo “scritto parlato”, scritto e orale restano
due aspetti dissimili sia se ne analizzano i tratti caratteristici e la storia sia
per il tipo di rapporto che stringono con la grammatica della lingua a cui
appartengono.
Difatti,
la scrittura intesa come grafia è fortemente soggetta al rispetto delle regole
ovvero a quella che viene definita l’ortografia;
essa racchiude in sé i termini corrispettivi cioè il mezzo (grafia) e il
suo opportuno trattamento (orto).
Cosa
diversa per ciò che concerne la pronuncia che risulta essere meno vincolata
all’impegno del rispetto della regola grammaticale, per cui la forma orale si
offre a più variazioni.
Nello
specifico, per quanto riguarda l’italiano, pronuncia e grafia corrispondono a
tal punto che imparare l’italiano per uno straniero è molto più semplice che
non il contrario. L’italiano si legge come si scrive, fatta eccezione di alcuni
equivoci che però non riguardano la forma quanto il significato (es. la parola
“danno” può essere un sostantivo ma anche la 3ª persona plurale del presente
indicativo del verbo dare).
Tuttavia,
in italiano esistono delle parole omografe (che si scrivono alla stessa
maniera) ma non omofone poiché tutto dipende da dove è posizionato l’accento
(es. àncora vs ancóra) e, in aggiunta, giusto per il gusto di complicarci la
vita, la faccenda non migliora se teniamo conto delle varie pronunce regionali
di qualche fonema.
Non
va di certo meglio quando l’intensità della pronuncia non corrisponde con
l’elemento grafico, come succede talvolta con alcune consonanti intervocaliche (come
nel caso della b) nella pronuncia di roba (che diventa robba), rubare (che diventa rubbare)
o aborrire (che diventa abborrire), in cui l’intervocalica viene ingiustamente
raddoppiata, o di alcune consonanti lasciate orfane della gemella (a Roma la
parola macchina diventa ‘machina’).
Se
teniamo conto delle variabili locali di pronuncia (prendiamo ad esempio il
toscano da cui l’italiano trae la propria origine e il proprio sviluppo) non si
tratta solo di una questione di indebito raddoppiamento ma anche di un
raddoppiamento fonosintattico (ovvero raddoppia la consonante di una parola
quando preceduta da certe altre) e di parole che tendono a essere scritte prive
della doppia nel punto di sutura tra due componenti (es. sennonché, soprattutto
ecc.)
Ma
torniamo a bomba su fonemi, grafemi e regole, ripartendo dalla consapevolezza
che forse l’italiano non è poi così scontato come appare. Ed è per certo una
lingua in continua evoluzione.
Analizziamo
dei fonemi, o fenomeni sintattici, che hanno destato nel tempo alcuni dubbi.
Parliamo
dall’elisione, ovvero la perdita di
una vocale alla fine di una certa parola che ne precede un’altra che inizia a
sua volta per vocale. L’elisione è obbligatoria davanti agli articoli
determinativi singolari mentre resta facoltativa nei pronomi personali.
L’articolo femminile plurale non elide mai (le empatie) così come quello
maschile plurale (gli), nemmeno davanti a una parola che inizia con la i. La particella ci, invece, elide obbligatoriamente quando attualizza la forma
essere e il verbo entrare (sia nella forma scritta che nel parlato), mentre con
avere elide nel parlato (c’ho fame) ma non nello scritto. Esistono, infatti,
delle forme nello scritto che tendono a mantenere con una certa tenacia la
forma piena a dispetto della elisa.
Nel
caso della famigerata d eufonica (ed
– ad) la faccenda è articolata a causa delle varie teorie di pensiero.
Distinguiamo, anzitutto, l’eufonica ovvero quella d che serve a creare un bel suono da elementi di cacofonia ovvero
quel suono sgradevole che si verifica in presenza di due vocali uguali che si
susseguono (a andare). Tuttavia, tolte teorie e gusti personali, la d eufonica
va evitata in ogni caso: prima di un inciso, davanti all’ h aspirata di parole straniere, quando nella parola che la segue è
presenta un’altra d o la t.
Il
troncamento, invece, riguarda la caduta della
vocale o della sillaba alla fine di una parola a prescindere da quella che la
segue. A differenza dell’elisione, il troncamento non prevede l’apostrofo se
non in alcune eccezioni come gli imperativi da’, va’, fa’, sta’ e in po’. Per
quanto riguarda l’articolo indeterminativo e aggettivo numerale uno, il troncamento è quasi d’obbligo
mentre elide al femminile davanti alla parola che inizia con una vocale
(un’amica). Le consonanti che precedono la vocale caduta sono tendenzialmente
la l, la n e la r (ecco perché si
scrive qual è tronco e non eliso).
Fin
qui parrebbe tutto molto semplice, ma la faccenda si complica di molto se
analizziamo gli accenti. La difficoltà
nasce dal fatto che, nel caso degli accenti, il parlato risente fortemente
delle influenze dialettali regionali e non esistono delle vere e proprie regole
sintattiche; nel dubbio sul dove porre l’accento si dovrebbe ricorrere
all’etimologia della parola, cosa in alcuni casi assai complessa. In Italia si
parlano molti italiani e il parlante alle prese con una parola nuova, può
collocare l’accento con una certa libertà (di solito tendendo a retrocederlo in
molti polisillabi). In italiano la maggior parte delle parole sono piane o
parossitone (cioè hanno l’accento sulla penultima sillaba), alcune sono
sdrucciole o proparossitone (hanno l’accento sulla terzultima), altre ancora
sono tronche o ossitone (hanno l’accento sull’ultima sillaba).
Ora,
a conclusione di questa riflessione e volendo scampare all’errore che sta
sempre in agguato, per arginare il divario tra regola scritta e parlato
regionale, tra regole sintattiche e libero arbitrio, credo che la cosa migliore
da fare di fronte al dubbio su come si scriva questa o quella parola, sia
consultare un buon vocabolario.
Linguaggio e memoria: il vincolo necessario
Diversamente
dai modelli di concettualizzazione riguardanti i vari tipi di memoria, volendo
affrontare un discorso sul linguaggio, la prima cosa da chiarire è
l’impossibilità di parlarne in modo definitivo e esaustivo. Quello che si può
fare è offrire le proprie conoscenze e i personali pensieri traghettandoli dal
bagaglio mnemonico (per l’appunto) alla carta (digitale).
Ma come funziona la memoria e qual
è la relazione esistente tra memoria e linguaggio?
Secondo
il modello di Atkinson e Shiffrin (1968), esistono tre tipi di memoria: la
memoria sensoriale, la memoria a breve termine (MBT) che contiene e trattiene le informazioni
per pochi secondi e fa da collante tra la memoria sensoriale e la memoria a
lungo termine (MLT) che, invece, è una sorta di archivio in cui vengono
immagazzinate le informazioni. La MLT è suddivisa in: memoria esplicita (o
dichiarativa), memoria implicita (o procedurale). La memoria dichiarativa
comprende ciò che il soggetto descrive consapevolmente ed è a sua volta
suddivisa in episodica, semantica e autobiografica.
Baddeley
e Hitch nel 1974 ripresero e elaborarono la precedente teoria dando forma al
modello della working memory (WM) o memoria di lavoro. In realtà, la memoria di
lavoro altro non è che una forma di memoria a breve termine che ospita una
piccola quantità di informazioni per un tempo molto limitato. La memoria di
lavoro elabora le informazioni in entrata nel momento in cui si eseguono dei
compiti cognitivi quali, nello specifico, scrivere e parlare.
Dunque,
ricordare e creare sono processi collegati e, se è vero che lo scaffale
mnemonico a lungo termine è la dispensa da cui si attinge, è altrettanto certo
che è quella a breve (brevissimo) tempo a consentire all’individuo di dare
forma al linguaggio. Le parole, le frasi e la lingua si producono nell’immediato,
in quel presente che in pochi secondi (circa 6 o 7 stando alle ricerche in
proposito) diventano passato.
È
interessante notare che mentre scriviamo una frase abbiamo bisogno di tenerla a
mente (ricordarla) per poter proseguire con la seguente parte del concetto. La
stessa cosa succede quando ascoltiamo una persona parlare. Affinché si possa
ricostruire il contenuto espresso, letto o ascoltato dobbiamo necessariamente
ricordare ciò che è stato detto o letto. Di questo rapporto tra passato
recentissimo e parola ne indagò già Sant’Agostino nel 394 d. C.
Tenere
a mente ciò che si sta ascoltando o leggendo è una precondizione necessaria
affinché ci sia la comprensione del contenuto. Inoltre, se non tenessimo a
mente l’intera struttura della frase mentre la scriviamo/leggiamo non saremmo
in grado di completarla/comprenderla. Gran parte delle parole che utilizziamo
finiscono per depositarsi nella MLT che, al contrario di ciò che si pensa, ha
una capacità limitata e contenuti personali. Nessuna memoria a lungo termine
può essere ritenuta contenutisticamente identica a un’altra. Si tratta di un
luogo non luogo soggettivo, simile
soltanto tra le persone appartenenti allo stesso nucleo familiare il quale ha
sviluppato nel corso del tempo un “linguaggio famigliare” riconoscibile (o
dialetto). Per “familiare” intendo una cerchia ristretta (ristrettissima) di
persone con le quali si è condiviso un certo tipo di linguaggio, legato a
aneddoti passati, a deformazioni infantili e così via.
Ad
ogni modo, se da una parte esiste un piccolo bagaglio di parole condivise col
proprio gruppo familiare/sociale, dall’altra trova spazio un nucleo di
vocaboli, poche migliaia, che ci consente di comunicare con gruppi di persone
culturalmente e socialmente lontani dal nostro. Sia le parole comuni che quelle
più distanti dal nostro personale vocabolario, sono il frutto di una tradizione
tramandata, atti comunicativi che appartengono al nostro passato, e al passato
ci collegano.
Ma
c’è ancora di più.
Abbiamo
citato la memoria a lungo termine raffigurandola come una scaffalatura ricca di
vocaboli, migliaia o decine di migliaia a seconda del grado di cultura
personale. Ebbene, pensare a questo magazzino linguistico come a qualcosa di
statico è del tutto riduttivo, oltre che errato. Tale magazzino è il nostro
cervello che è, in realtà, un insieme dinamico di connessioni di miliardi di
neuroni che tutto sono fuorché statici.
Nell’uso
quotidiano, le parole si connettono tra di loro perché affini per forma, genere
o prossimità, ma anche sulla base delle esperienze pregresse. È una connessione
semantica di vocaboli che ne richiamano altri; pezzi di un materiale definito mema ovvero l’unità funzionale della
nostra memoria. Tali memi fungono da collante tra la nostra memoria, il nucleo
familiare, il gruppo sociale fino all’insieme più ampio che costituisce una
nazione. A una lingua, ai suoi suoni, ai suoi significati è affidata la memoria
identitaria di un popolo.
Le
parole sono radicate nel nostro passato, ma consentono un continuum linguistico
col presente e il futuro (immediato e non), dal momento che le parole di cui
disponiamo diventano le istruzioni per le azioni da compiere, per i progetti
futuri.
Passato,
presente e futuro prendono e danno forma alle parole: che nascono e si strutturano,
si consolidano e si tramandano rendono l’uomo l’essere comunicativo che è.
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