domenica 23 giugno 2019

La settimana bianca (Recensione)

Titolo: La settimana bianca
Titolo originale: La Classe de neige
Traduzione a cura di Maurizia Balmelli



In seguito Nicolas cercò a lungo, ancora oggi cerca, di ricordarsi le ultime parole che gli aveva rivolto suo padre. L’aveva salutato sulla porta dello chalet, gli aveva nuovamente raccomandato di fare attenzione, ma Nicolas era così imbarazzato dalla sua presenza, così ansioso di vederlo andar via che non era stato a sentire.
(…)
Nicolas e suo padre raggiunsero lo chalet poco prima di sera. (…) Mentre nell’ingresso la maestra parlava con il padre di Nicolas e gli presentava i due animatori, nel salone i bambini cominciarono a fare chiasso. Fermo sulla porta, Nicolas li guardava senza avere il coraggio di raggiungerli. (… )
Quando finalmente suo padre ripartì, si lasciò baciare controvoglia e non uscì a salutarlo. Dall’ingresso ascoltò con sollievo il motore diesel rombare sullo spiazzo, poi allontanarsi.
La maestra incaricò gli animatori di ristabilire l’ordine e di far ripartire la proiezione mentre lei aiutava Nicolas a sistemarsi. Gli chiese dove fosse il suo zaino, per portarlo su nel dormitorio. Nicolas si guardò intorno ma non lo vide. Non capiva.
“Mi pareva che fosse qui” mormorò.
(…)
“E quando siete arrivati, l’avete tirato fuori dal bagagliaio?
Nicolas scosse la testa mordendosi le labbra. Non ne era sicuro. Anzi, sì: adesso era sicuro che si erano dimenticati di tirarlo fuori. Erano scesi, poi suo padre era risalito in macchina e il bagagliaio proprio non l’avevano aperto.

Questo è il primo cruccio col quale Nicolas, ragazzino in gita scolastica, si ritrova a dover fare i conti una volta arrivato allo chalet. Il primo, non il solo, poiché Nicolas custodisce un segreto che cerca di tenere tenacemente nascosto ai suoi compagni di stanza:

Non si sentiva più nessun rumore, ma Nicolas non era sicuro che gli altri dormissero. Forse facevano finta, temendo di attirarsi le ire di Hodkann, e forse anche Hodkann fingeva, per sorprendere chi avesse osato infrangere gli ordini. Dal canto suo, Nicolas non voleva dormire. Aveva paura di fare pipì a letto e di bagnare il pigiama di Hodkann. O, peggio ancora, di inzuppare il materasso, sprovvisto di traversa, e bagnare addirittura lo stesso Hodkann sotto di lui. Il liquido maleodorante avrebbe cominciato a sgocciolare su quel volto di tigre, facendogli storcere il naso; Hodkann si sarebbe svegliato e allora sarebbero stati guai.
Per evitare una simile catastrofe, l’unica soluzione era non addormentarsi.

E invece poi succede, e l’empatia di Patrick non basta a nascondere Nicolas agli occhi dei suoi compagni, se non per un tempo limitato. 
Ma è pure con molte altre cose che il bambino deve convivere: con il suo impaccio di crescere e autodeterminarsi, con la sua famiglia, con un padre che non è come dovrebbe essere, come lui vorrebbe che fosse:

Al crepuscolo suo padre usciva dalla sua camera in pigiama, con la barba lunga, la faccia imbronciata e gonfia di sonno, tasche piene di fazzoletti appallottolati e confezioni di medicinali vuote. Sembrava sorpreso, sgradevolmente sorpreso di svegliarsi lì, di camminare tra quei muri troppo vicini e scoprire, aprendo la prima porta che incontrava, una cameretta dove due ragazzini, a quattro zampe sulla moquette, interrompevano il gioco o la lettura per guardarlo con apprensione.
(…)
Aveva lo sguardo confuso, gli tremavano le mani. Si era alzato ansimando, con il pigiama color vinaccia semiaperto, tutto spiegazzato, ed era uscito a tentoni, quasi non sapesse quale porta aprire per imboccare il corridoio, tornare in camera sua, rimettersi a letto.

In questo quadro emotivo/familiare si esplica tutta la vicenda, un susseguirsi e un crescendo di ansie, di angosce che troveranno il loro epilogo in un finale del tutto inaspettato.



Emmanuel Carrère è nato a Parigi, dove vive e lavora. Di lui Adelphi ha pubblicato Limonov (2012), L'Avversario (2013), Il Regno (2015), Io sono vivo, voi siete morti (2016), A Calais (2016), Propizio è avere ove recarsi (2017), e Un romanzo russo (2018). La settimana bianca è apparso in Francia nel 1995. 


Non so se, come molti insistono nel dire, questo sia il romanzo meglio riuscito di questo autore. Ciò che credo è che sia un noir che, seppure nella sua linearità e apparente "semplicità" di scrittura, riesce a indagare le paure, le angosce, le incertezze di questo protagonista in maniera ineccepibile. Un viaggio all'interno della fantasia (terrorizzata) di questo bambino che vedrà le sue Storie di paura prendere la forma e le sembianze di chi avrebbe dovuto proteggerlo.




sabato 15 giugno 2019

Il rito del fuoco (Recensione)

Titolo: Il rito del fuoco
Titolo originale: The last child
Autore: John Hart
Traduzione: Monica Pezzella, Daniela Pezzella
Edito da Nutrimenti



Johnny aveva imparato presto. Se qualcuno gli avesse chiesto perché era diverso dagli altri, perché era così impassibile e perché i suoi occhi sembravano ingoiare la luce, avrebbe risposto così. Aveva imparato presto che non c’erano luoghi sicuri, neanche il cortile, il giardino e il portico di casa, nemmeno la strada tranquilla che tagliava il confine della città. Nessun posto sicuro, e nessuno a proteggerlo.
L’infanzia era un’illusione.


Johnny è un tredicenne che si ritrova d’improvviso a dover fare i conti con l’assenza fisica di sua sorella Alyssa, rapita in circostanze sospette e poco chiare, un padre che ha abbandonato la famiglia perché incapace di sopportare il rimorso di non aver saputo evitare il rapimento e una madre chiusasi nei suoi tormenti, nel suo dolore, che non adempie più ai suoi doveri di genitore, neppure quelli affettivi, vittima di un uomo che sembra più odiarla che volerle bene.


Conoscevano Ken da moltissimo tempo; ma in realtà non lo avevano mai conosciuto. Il padre di Johnny era un appaltatore, per il quale Ken aveva costruito quartieri interi. Insieme avevano lavorato bene perché suo padre era sveglio e competente, e perché Ken era abbastanza furbo da rispettarlo. Per lo stesso motivo, Ken era sempre stato gentile e corretto anche dopo il rapimento, finché il padre di Johnny non aveva più retto il dolore e il senso di colpa. Ma quando il padre di Johnny se ne era andato, il rispetto di Ken era sparito, e lui aveva cominciato a presentarsi in casa loro molto più spesso. Adesso era lui che comandava. Sua madre ne era completamente succube: la costringeva a non vedere nessuno e la lasciava libera di bere e imbottirsi di farmaci.



Johnny si fa caparbio e intrepido, elabora teorie sul rapimento di Alyssa, indaga parallelamente e di nascosto dalla polizia e dal detective Hunt, di notte visita luoghi pericolosi ai margini della contea, guidando l’auto di sua madre, e raccoglie indizi, talvolta ricercando la complicità del suo migliore amico Jack Cross.

La gente non ci stava con la testa. Questo il poliziotto doveva saperlo bene. Johnny non ricordava neanche più quanti erano gli steccati e le finestre da cui aveva sbirciato. Si era presentato a casa della gente a ogni ora del giorno e della notte, e aveva visto cose assurde. Cose che gli uomini facevano quando erano soli e pensavano di non essere osservati. Aveva visto ragazzini sniffare droga e vecchi mangiare cibo raccolto dal pavimento. 
(…) 
Ma Johnny non era uno stupido. Sapeva che i matti possono sembrare normali. Per questo stava attento a non farsi vedere. Le scarpe ben allacciate e il coltello in tasca.
Johnny afferrò Jack per la camicia e lo sollevò. “Muoviti”, disse.
“Dove andiamo?”
“Tu muoviti e basta”.
Lo trascinò fino al pickup. “Aspetta qui”.
“Amico…”.
Ma Johnny non lo ascoltava. Incurante delle pattuglie della polizia, provò ad aprire la portiera del furgone di Steve. Chiusa a chiave. In giardino, staccò un blocco dal marciapiede già mezzo rotto. Tornò dritto al furgone, il mattone nella mano destra alzata. Spaccò il finestrino, infilò un braccio all’interno e aprì il vano portaoggetti. Poi tornò al pickup, agguantò la bottiglia dalla mano di Jack e la scagliò nel buio. Allungò a Jack la scatola di cartucce. “Tieni queste”.
“Che roba è?”
“E questa”. Gli cacciò in mano la pistola.
“Oh, merda”.
Johnny aprì la portiera e puntò gli occhi sull’amico. “Ci vieni stavolta?”
“Oh, ‘fanculo”, disse Jack, e Johnny mise in moto.

Johnny impara alla svelta a dover fare da solo, a fare i conti con la solitudine, a capire quanto sia debole e impenetrabile e cupo l’animo delle persone; incontrerà uomini folli, come Freemantle e i suoi riti, la paura dei corvi, dei fulmini, della propria debolezza. Vedrà da vicino la morte, conoscerà la sofferenza ma, al contempo, imparerà la riconoscenza, l’affetto incondizionato, il perdono.




John Hart è autore di sei romanzi, pubblicati in trenta lingue e oltre settanta paesi. Unico scrittore nella storia a vincere per due volte il prestigioso Edgar Award, è stato premiato anche con il Barry Award, il Southern Independent Bookseller’s Award for Fiction, lo Ian Fleming Steel Dagger Award, il Southern Book Prize e il North Carolina Award for Literature.


In questa narrazione, evocativa e carica di suggestione, prendono forma e corpo delle ambientazioni campestri particolareggiate, descrizioni puntuali e precise che non scadono mai nella noia o nella ridondanza; personaggi tenacemente caratterizzati dai quali il lettore ha l’impressione di potersi aspettare di tutto.
La trama è ben articolata, intrecciata su fili solidi ben incastrati in un telaio di robusta qualità. Il finale mi ha sorpresa, rapita, impressionata.
In questo thriller, assolutamente strepitoso, non si ha la risoluzione del caso (o forse sarebbe meglio parlare al plurale) se non alle ultime battute.
Nessuno sembra essere ciò che appare, nessuno al sicuro, nessuno mai del tutto innocente.


Federica Lombardozzi Mattei
#thrillernord


giovedì 13 giugno 2019

La danza dei veleni (Recensione)

Titolo: La danza dei veleni.
Il ritorno di Blanca
Autore: Patrizia Rinaldi
Edito da Edizioni E/O



“Non mi faccio capace che l’odore del tradimento arrivi prima di lui, ma con me fa così: somiglia ai vapori dello zucchero fermentato, che salgono nel naso e poi continuano fino al cervello.
L’infedeltà si dice in anticipo, è un rumore di foglie che si staccano e se ne vanno prima che l’albero sia svestito dal vento.”
(…)
“L’inganno ha un aroma tutto suo, invecchiato in anni di esercizio.”


Sin dalle prime pagine di questo libro ho intercettato la forte umanizzazione che caratterizza il personaggio di Blanca Occhiuzzi, un detective ipovedente il cui cognome riecheggia d’ironia, tormentata dalla percezione dell’inganno inteso nel suo senso più vasto: come discrepanza tra apparenza ed essenza, tra intuizione ed estenuante ragionamento, tra la capacità di percepire il non visto e l’incapacità di osservare il vedibile. 


“Quelli che si dichiarano deboli, loro sì che sono capaci di annunciare la propria scarsa resistenza, hanno sempre in bella mostra una scatola di cartone che mette in guardia chi si avvicina: attenzione, fragile. Chi ha scelto di dirsi forte non può avere l’avviso scritto sul cartone. Non c’è nessuna parola che dica: attenzione, pure lei è fragile, almeno in alcuni punti. Si piega in due lo stesso, si riduce in frantumi lo stesso. Chi si ostina a dirsi forte si ripara in solitudine, come può, ma riparte con qualche pezzo mancante, perduto senza poterne esibire la croce.”
(…)
“Immagino la semioscurità della stanza. L’infedeltà sarà contenta delle tende chiuse, si trova bene nella penombra, sta a suo agio nel mistero. Eppure ho un vantaggio: il tradimento che agisce nello scuro non lo sa che il buio è anche roba mia. Ci affronteremo in una lotta tra pari. Per me, dare al nemico le spalle o il petto è la stessa cosa. Non lo posso comunque guardare in faccia.
Mi consolo da sola: se perdo c’è sempre la fuga, me ne so andare.”
Quando parlo di umanizzazione intendo questo. Blanca sa denunciarsi consapevole delle proprie difficoltà, delle mancanze, delle fragilità ma, al contempo, sa prendersene cura escogitando una strategia, sebbene di fuga, che possa in qualche maniera fungere da elemento protettivo.
Non credo sia un caso che il libro si apra su una panoramica di intrecci relazionali e di “sofferenze” personali; del resto le indagini e i rapporti tra i vari personaggi sembrano correre su binari paralleli, in una corsa simmetrica. Tuttavia, proseguendo nella lettura si ha la sensazione che le indagini tardino a trovare una risoluzione proprio perché i vari personaggi, intrappolati nella propria bolla individualistica, tendono ad acquisire le informazioni sui casi senza raccordarle a quelle rilevate dal resto del gruppo. Sono pezzi spaiati di uno stesso puzzle.
Ma Blanca si spinge oltre perseverando nel tutelare la sua maschera di “animale selvatico” concedendosi all’amore di un uomo che non ama e a una figlia, adottiva, di cui ha scelto di prendersi cura. È un animale fedele, Blanca, ma a proposito della fedeltà dice:

“ (…) tu non lo sai, ma ti porti con te tutto questo e io non voglio esserti fedele, perché ho un carattere insidioso che può pure ammazzare per difendere una promessa. Può ammazzare soprattutto me, e per il momento non me lo posso permettere, non posso più essere fedele all’amore e al tentativo spasmodico di mettere a posto questi pezzi di me che insieme fanno solitudine. Io non posso promettere più.”



Patrizia Rinaldi vive e lavora a Napoli. È laureata in Filosofia e si è specializzata in scrittura teatrale. Ha partecipato per diversi anni a progetti letterari presso l’Istituto penale minorile di Nisida. Nel 2016 ha vinto il Premio Andersen Miglior Scrittore. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo La compagnia dei soli, illustrato da Marco Paci, (Sinnos 2017), vincitore del Premio Andersen Miglior Fumetto 2017, Un grande spettacolo (Lapis 2017), Federico il pazzo, vincitore del Premio Leggimi Forte 2015 e finalista al Premio Andersen 2015 (Sinnos 2014), Mare giallo (Sinnos 2012), Rock sentimentale (El 2011), Piano Forte (Sinnos 2009). Per le Edizioni E/O ha pubblicato Tre, numero imperfetto (tradotto negli Stati Uniti e in Germania), Blanca, Rosso caldo, Ma già prima di giugno (Premio Alghero 2015) e La figlia maschio (2017).  
   
Patrizia imprime su carta una scrittura a dir poco strabiliante; poetica, fluida, emotiva. L’uso del “voi” e di quell’intercalare tipicamente napoletano, che non è mai eccessivo o pastoso, rimandano al vociferare delle strade rionali, all’odore del caffè, alle chiacchiere, ai panni stesi al sole che impregnano l’aria di odore di bucato.
È un quadro, il suo, di cui ho apprezzato ogni cosa. Cornice compresa.

#thrillenord #recensione