martedì 12 dicembre 2017

Storia dei miei fantasmi (Recensione)

Titolo: Storia dei miei fantasmi (Racconti)


Francesco Borrasso esce oggi in libreria con questa raccolta di racconti che custodisce in sé parole medicamentose dalle quali, tuttavia, è inevitabile lasciarsi inghiottire. Il fil rouge che tiene assieme queste storie è sicuramente quello delle emozioni, nella loro più vasta gamma di sfumature. Volendo citarne alcune, dapprima ci si ritrova a fare i conti con il riconoscimento dei sentimenti grumosi, addensati dagli addii:
“Il dolore bambino era formato da tutti i ricordi bianchi, tutte le scene, gli odori, tutti i sapori, i visi, tutti i sorrisi, le giornate di sole, e la pioggia che non serviva; ho provato con la mano ad accarezzargli i capelli, è scappato via, (…).
(…)
“Il dolore uomo è stato più feroce ma meno teatrale; più rapido, più servizievole. Ci siamo riconosciuti subito; nella certezza di avere dei limiti, nell’approvare le nostre debolezze, nell’affrontare una perdita facendoci aiutare dal corpo.”

Poi arrivano l’angoscia e lo smarrimento lasciati in eredità dalle separazioni premature, tra cui quella violenta dal proprio padre; il racconto di ciò che nel tempo si è diventati: delle acquisizioni, delle mancanze, del caro prezzo delle cose taciute:  
“Tu lontano ad osservare, io, su due ruote. Questo momento è identico, come istruirsi per quella magia una seconda volta, imparare a farcela, senza di te. Certo, ora sei alle mie spalle, ma mi basta un movimento, un gesto veloce del busto, un braccio che si alza e prova a stringere, per abbracciarti; sei talmente vicino che dalla schiena puoi toccarmi il cuore.”

La malattia e la necessaria e lucida convivenza con i sintomi:
“Ma so che la depressione è una porta, e se la apri una volta, devi sempre stare molto attento a non perdere la chiave, non di certo per poterla riaprire, quella porta, ma per poterla richiudere, nel caso in cui si riapra da sola.”

E poi ancora, ci si addentra tra le pieghe degli amori acerbi e di quelli fumosi e sfuggenti da voler proteggere a ogni costo, anche quando a lottare si è rimasti i soli; la chiusura, le cose non dette per tempo:
Resta, ti sussurro. Lo faccio piano, con il cuore che salta un battito, con la gola che si chiude per paura di ingoiare, con lo stomaco che si riempie di cemento; i miei movimenti sono densi, pieni di colla.”

I fantasmi che tornano ogni notte a dichiararci guerra a conferma di tutti i grovigli interiori irrisolti:
Il loro primo bacio era stato una rincorsa, un bacio pieno di paura e consapevolezza; uno spostamento di prospettive.”

Perché i fantasmi delle persone che si lasciano andare continuano a vagare nella nostra testa appropriandosi delle fattezze delle possibilità che non ci siamo concessi.

“Ogni storia d’amore ha il suo grado di imperfezione, e in alcune, vincono i fantasmi.”

Borrasso ci avvolge nei tessuti delle apparenze, delle distanze, tra le ossessioni; e la morte raccontata in un modo che annoda le corde più intime dell’essere umano:
“Mio nonno è deceduto, siamo in cucina e all’esterno il giorno sta finendo. È inverno, le strade piene di addobbi. Mio padre indossa un maglione nero, a collo alto. (…) È fero sulla sedia, mi rendo conto delle sue mani che tremano un poco, me ne accorgo da terra: sono vicino al fuoco, sul tappeto, e sto leggendo, non ricordo il titolo del libro ma mi è rimasta la sensazione di solitudine.
«Pà’». La mia voce pare una violazione. Un rumore scagliato contro il silenzio sacro.
Lui si volta, abbassa gli occhi e li punta su di me; il suo corpo si porta dietro il racconto del lutto, l’accettazione difficoltosa, sussurra l’epifania di un percorso.”

(…)

“Il morto ha il viso fermo, battuto dal buio; è stato un elemento di salvezza nelle notti bambine, quando qualcuno, agitato dagli incubi, chiamava il suo nome; davanti al volto compariva il suo sorriso che traboccava sonno, metteva una mano sul petto come a voler calmare il battito della paura.
È anche la gola, questa nel collo della camicia, da cui sono venute fuori tutte le parole.”

E quegli allontanamenti salvifici che arrivano proprio nel momento in cui l’alternativa sarebbe sprofondare:

“Lui le posa un bacio sulla fronte. Lei si apre in un sorriso dolce, e nella camera c’è la quiete dei giorni finali.”

Perché dal dolore bisogna uscirne se non illesi quantomeno non troppo malconci, dico io, che ho trovato in questi racconti la tessitura perfetta di una coperta di passioni, trepidazioni, turbamenti che hanno saputo trascinarmi lungo un canale emozionale a tratti opacizzato dagli umori più scuri, e in parte costellato da tratti emotivi tendenti alla pretesa della rinascita.



Francesco Borrasso è nato a Caserta nel 1983.
Si è diplomato in regia cinematografica alla scuola di cinema napoletana: Pigrecoemme.
Ha esordito nel 2016 con il romanzo La bambina celeste, edito dalla casa editrice Ad est dell'equatore. Scrive su Nazione Indiana e cura la rubrica La bellezza nascosta per SulRomanzo. 

La scrittura di Borrasso rasenta la poesia, è ricca di metafore, di slanci di una suggestione e un fascino davvero introvabili.

“Ho combattuto per te come si combatte per la propria vita, ho sfidato la ragione per dare ascolto solo e sempre al mio cuore.”

Credo ci sia riuscito appieno.


domenica 3 dicembre 2017

Neve, cane, piede (Recensione)

Titolo: Neve, cane, piede
Autore: Claudio Morandini
Edito da Edizioni Exorma


Un titolo essenziale, privo di fronzoli che preannuncia in modo esaustivo e con una certa spietatezza, gli elementi e gli ambientamenti che costituiscono la narrazione; a questi si sommano gli umori che caratterizzano il protagonista, Adelmo Farandola, vecchio malconcio e burbero che in estate vive in un bivacco dal quale si allontana raramente per scendere in paese, mentre in inverno nel totale isolamento, confinato tra le strette pareti di una baita completamente ricoperta di neve. Uno spazio inizialmente inaccessibile al cane, amico fin troppo loquace al quale Farandola presta pensieri e sentimenti, e col quale il vecchio montanaro condividerà un macabro ritrovamento.

D’altra parte, i cani fanno così. Si vendono per un pezzo di pane. Ti si appiccicano per la vita. Se li sbatti fuori casa perché si dedichino ai bisogni loro restano lì, sulla porta, e se la fanno addosso, perché tu non sei con loro, e loro non muovono un passo senza di te. Così fanno i cani.”

E poi

“E il cane mugola per la frustrazione.
La notte, i colpi più lenti, più vaghi. È la neve che bussa, lo strato spesso di neve che avvolge tutta la baita e la nasconde al sole fino a renderla un semplice rilievo sulla superficie. È la neve che chiede di entrare.”


“(…) non uno zoccolo, quello che uomo e cane vedono spuntare dalla valanga. Spunta proprio come un germoglio che ha attraversato strati di terra, a fatica e con ostinazione, e ora si schiude all’aria e al sole, per crescere più forte. È grigio di terra e livido.”





Claudio Morandini, nato ad Aosta nel 1960, è insegnante di Lettere presso il liceo scientifico "Édouard Bérard" di Aosta. Si è inizialmente dedicato alla scrittura di commedie per la radio e il teatro, per poi lavorare sul racconto breve e, in seguito, sul romanzo. Suoi racconti sono apparsi in antologie e riviste. Collabora con il blog Letteratitudine e con le riviste letterarie Fuori Asse, Diacritica e Zibaldoni e altre meraviglie.
Con il suo libro “A gran giornate” è entrato nella selezione libri del mese di settembre 2012 delle librerie La Feltrinelli, nella cinquina dei finalisti della seconda edizione del premio letterario "Il Paradiso degli Orchi", sempre nel 2012, ed è risultato vincitore della prima edizione del premio letterario "Città di Trebisacce", promosso nel 2013 dall'Istituto Culturale della Calabria "Il Musagete".
Con il romanzo Neve, cane, piede si è aggiudicato la XXIX edizione del "Premio Procida-Isola di Arturo-Elsa Morante", nella sezione Narrativa. A seguito dell'iniziativa "Modus Legendi", il libro ha raggiunto la quinta posizione nella classifica della narrativa italiana e la settima posizione in quella generale dei libri più venduti. Nel marzo 2017 il romanzo è uscito in Francia e a novembre dello stesso anno in Cile.


Un romanzo breve questo, dal ritmo incalzante, ricco di dialoghi ben costruiti, mai pesanti né scontati; una prosa che mette tenacemente in equilibrio i toni più asciutti usati nella narrazione della solitudine, del delirio e della scontrosità del protagonista, che tra l’altro culmina nella ferocia, e quelli più leggeri in cui a farla da padrone sono avvenimenti raccontati con sbalzi umoristici alla stregua del comico.  

"Un romanzo che più somiglia a una lunga favola nera, in cui la montagna parla come creatura ventriloqua attraverso le voci degli animali (...)" Giorgio Ghiotti (l'Unità)