mercoledì 29 agosto 2018

Le assaggiatrici (Recensione)


Titolo: Le assaggiatrici
Autore: Rosella Postorino
Edito da Feltrinelli





“Entrammo una alla volta. Dopo ore di attesa, in piedi nel corridoio, avevamo bisogno di sederci. La stanza era grande, le pareti bianche. Al centro, un lungo tavolo su cui avevano già apparecchiato per noi. Ci fecero cenno di prendere posto.”

Era la prima volta che Rosa Sauer, ventiseienne berlinese, entrava in quella stanza, la mensa in cui avrebbe consumato i suoi futuri pasti. Svuotati i piatti, le dieci assaggiatrici del Fürer restavano in ostaggio delle SS il tempo necessario ad accertarsi che il cibo da servire a Hitler non fosse avvelenato:

“Studiai la mensa (…) come si studia un ambiente estraneo. Il primo giorno di scuola, quando mia madre mi aveva lasciata in classe andando via, il pensiero che potesse accadermi qualcosa di male a sua insaputa mi aveva riempita di tristezza. Non era tanto la minaccia del mondo su di me, quanto l’impotenza di mia madre, a commuovermi. (…) In classe avevo cercato una crepa nel muro, una ragnatela, una cosa che potesse essere mia come un segreto. Gli occhi avevano vagato per la stanza, che sembrava enorme; poi avevo notato un frammento di battiscopa mancante, e mi ero calmata.
Nella mensa di Krausendorf, i battiscopa erano integri, Gregor non c’era, e io ero sola.”

In quell’ambiente chiuso, bolla di paura e di sospetto, erano nate amicizie, alleanze, segreti. Il più grande e vergognoso per Rosa fu quello condiviso con il comandante Albert Ziegler:

“Non arrivava prima di mezzanotte, probabilmente per essere sicuro che nessuno fosse sveglio, a parte me. Sapeva che lo avrei aspettato. Che cosa mi spingeva ad avvicinarmi alla finestra, che cosa spingeva lui a venire, a indovinare a fatica la mia sagoma nelle tenebre? A cosa non poteva rinunciare, Ziegler? Il vetro era un riparo: rendeva meno reale quel tenente che non diceva nulla, non faceva nulla, se non rimanere, persistere, imporre la sua presenza che non potevo toccare.”
 (...)
“In punta di piedi, scalza per attutire i passi, aprii la porta, mi accertai che Herta e Joseph dormissero, andai in cucina e uscii sul retro, percorsi il perimetro della casa in direzione della mia finestra, e lo trovai accovacciato in attesa di un segnale. (…) Ziegler si alzò di scatto. In piedi di fronte a me, nella sua uniforme, senza lo schermo della finestra a dividerci, mi spaventò come in caserma. L’incantesimo collassava, la realtà si rivelava in tutta la sua schiettezza. (…) Entrai nel fienile, mi seguì. Il buio era senza fessure. (…) Scoordinati, ciechi, guidati dall’olfatto, inciampammo l’uno nel corpo dell’altra come se misurassimo per la prima volta il nostro.”

Era l’autunno del 1943 a Gross-Partsch, un paesino vicino il nascondiglio/bunker di Hitler. Rosa era ospite a casa dei suoceri, i genitori di Gregor, l’uomo che ha sposato e dal quale si era dovuta separare dopo appena un anno di matrimonio poiché chiamato a combattere sul fronte russo. 

“Mi sembrava di aver conosciuto la felicità solo dopo averlo incontrato. (…) Torno presto, aveva detto, e mi aveva accarezzato la tempia, la guancia, le labbra, aveva provato a farsi strada con le dita nella mia bocca, nel nostro modo di sempre, il nostro patto silenzioso, fidati, mi fido, amami, ti amo, fa’ l’amore con me – ma io avevo serrato i denti e lui aveva ritirato la mano.”

Il tema di questa bocca che torna a più riprese, come luogo in cui poter depositare, afferrare, occultare, trattenere. La bocca nella sua denotazione febbrilmente freudiana, come presagio e condanna.

Mio padre era un ferroviere, mia madre una sarta. Il pavimento del soggiorno era sempre cosparso di rocchetti e fili di ogni colore. Mia madre ne leccava un estremo per inserirlo più facilmente nella cruna, io la copiavo. Di nascosto succhiavo il pezzo di filo e ci giocherellavo con la lingua saggiandone la consistenza sul palato; poi, quand’era un grumo umido, non riuscivo a resistere all’idea di ingoiarlo e scoprire se, una volta dentro di me, mi avrebbe uccisa. (…) La mia infanzia è stata questo, il vapore sui vetri delle finestre che davano su Budengasse, le tabelline imparate a memoria prima del tempo, (…) le formiche decapitate con le unghie, (…) il giorno in cui mi affacciai alla culla di Franz, mi infilai tra i denti la sua manina e la morsi, forte.”





Nata a Reggio Calabria nel 1978, vive e lavora a RomaCresciuta in Liguria, a San Lorenzo al Mare, si è trasferita a Roma nel 2002 e ha esordito nella narrativa nel 2004 con il racconto In una capsula all'interno dell'antologia Ragazze che dovresti conoscere.
Nel 2007 è uscito il suo primo romanzo La stanza di sopra vincitore del Premio Rapallo nella sezione Opera Prima, del Premio Città di Santa Marinella e tra i 13 finalisti del Premio Strega.
Ha in seguito pubblicato altri 3 romanzi (di cui Il corpo docile, vincitore del Premio Penne-Mosca 2013 Le assaggiatrici vincitore del Premio Pozzale Luigi Russo e del Premio Rapallo), un saggio, la pièce teatrale Tu (non) sei il tuo lavoro all'interno di Working for paradise e ha curato alcune opere della scrittrice Marguerite Duras. 

Credo che la Postorino abbia descritto magistralmente gli stati d’animo e i corpi, i sentimenti, gli slanci. E il contrasto tra suoni e immagini:

Ad ascoltarlo con gli occhi chiusi, il suono della mensa sarebbe stato un suono buono. Il tinnire delle forchette sui piatti, il fruscio dell’acqua versata, il rintocco del vetro sul legno, il ruminare delle bocche, l’acciottolio di passi sul pavimento, l’accavallarsi di voci e versi di uccelli e cani che abbaiano, il rugghio distante di un trattore colto dalle finestre aperte. Sarebbe stato nient’altro che il tempo del convivio; fa tenerezza il bisogno umano di cibarsi per non morire. Ma se riaprivo gli occhi li vedevo, i guardiani in divisa, le armi cariche, i confini della nostra gabbia, e il rumore di stoviglie tornava a riecheggiare scarno, il suono compresso di qualcosa che sta per esplodere.”

La vita, la patria, la fragilità:

“Non è una questione morale. Dei russi, degli ebrei, degli zingari, non gli è mai importato niente. Non li odia, ma nemmeno ama il genere umano, e di certo non crede nel valore della vita. Come si fa a dare valore a una cosa che può finire in qualsiasi momento, una cosa così fragile? Si dà valore a ciò che ha forza, e la vita non ne ha; a ciò che è indistruttibile, e la vita non lo è. (…) Nessuno ama i perdenti. E nessuno ama l’intero genere umano. (…) Non esiste pietà universale, solo l’impietosirsi davanti al destino di un singolo essere umano.”

 Il dolore che non ha sintomi localizzabili, la desolazione del sopravvivere che diventa un tratto di personalità, un’abitudine, una dipendenza emotiva:

Perché, da tempo, mi ritrovavo in posti in cui non volevo stare, e accondiscendevo, e continuavo a sopravvivere ogni volta che qualcuno mi viene portato via? La capacità di adattamento è la maggiore risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana.”

E poi i distacchi subiti e quelli necessari, i ritorni improvvisi nel momento in cui da raccogliere non ci sono più frutti ma cocci, le separazioni, gli addii non concessi, la solitudine, l’incapacità di accogliere, la resa.










martedì 14 agosto 2018

Dopo il divorzio (Recensione)

Titolo: Dopo il divorzio
Autore: Grazia Deledda
Edito da Studio Garamond (marchio registrato da Edizioni della Sera).





“L’indomani mattina Giovanna fu la prima a svegliarsi: dal vetro infisso nella porta penetrava un roseo barlume d’aurora, e nel silenzio mattutino si udivano garrir le rondini.
Appena svegliata, la giovine provò un senso di dolcezza, ma tosto le parve che un rombo di tuono fortissimo l’avvolgesse. Ricordava.
Quel giorno doveva decidersi il destino del suo sposo.”

Quella che ci racconta la Deledda è la storia di un amore contrastato tra il contadino Costantino Ledda e la giovane Giovanna Era, sposati e subito divisi da una condanna, pesante e ingiusta, ai danni dell’uomo. Lui, recluso e avvilito, decide di mantenere vivo il rapporto con la sua sposa attraverso una “costosa” corrispondenza:

“Durante l’ora d’aria Costantino poté conoscere un suo compatriota, un sardo, che veniva chiamato il re di picche (grassetto mio in sostituzione al suo corsivo) forse perché aveva una figura triangolare, con un grosso corpo e due piccolissime gambe sottili; paffuto, pallido, si faceva radere i capelli in modo da parere calvo. (…) Egli era addetto all’ufficio degli scrivani; potendo quindi comunicare con l’esterno favoriva certe corrispondenze clandestine dei condannati coi loro parenti, e riusciva ad introdurre nello stabilimento danari, tabacco, francobolli, liquori, profittandone largamente.”

Ebbene, i tentativi del recluso di mantenere un contatto con la sua sposa, e con un mondo chiuso fuori al quale è stato sottratto all'improvviso, viene reso vano dall’intrepido Brontu Dejas che prende in sposa Giovanna, resa libera dall’accesso alla pratica del divorzio. Tuttavia, sarà un matrimonio molto breve grazie alle simmetrie situazionali, alle quali la Deledda fa spesso ricorso, per cui il giovane Dejas avrà in eredità la stessa sorte del padre, e Giovanna un destino diverso.

La trama di questo romanzo, che si può definire etnografico, prende forma in un periodo storico decisamente importante ovvero quello in cui si affaccia la proposta di legge sul divorzio. La Deledda, al fine di adeguare il romanzo al quadro normativo, benché fosse rimasto inalterato negli anni, lo revisionò nel 1920 (la prima stampa risale al 1902). Questa rivisitazione in realtà porta in sé e con sé molto di più; la Deledda scrisse e pubblicò questo romanzo in seguito a degli importanti e definitivi cambiamenti avvenuti nella sua vita ovvero il matrimonio con P. Madesani e il trasferimento definitivo a Roma, le cui sofferte ripercussioni possono essere rintracciate nei tratti malinconici e severi dell’ingiusta reclusione del personaggio. Inoltre, v'è una forte ambivalenza tra la denuncia di un’evoluzione normativa, di un passo enorme verso il riconoscimento di un diritto e, di contro, il forte legame alla tradizione, in questo caso sarda, sia nell’uso del linguaggio che nelle descrizioni dettagliate dell’entroterra isolano:

“C’era un bosco di soveri* (*quercia da sughero, n.d.C.), di cisti e di corbezzoli; su questo pareva fosse piovuto del sangue. E un odore, caro mio, un odore così forte che pareva di tabacco. Bada, c’è una croce sopra una pietra; si vede il mare lontano.”

“Faceva freddo; non spirava vento, ma l’aria era tagliente, e un silenzio indescrivibile regnava nella grande valle selvaggia, accresciuto, anziché rotto, dalla voce monotona di qualche torrente. L’erba invernale, corta e d’un verde intenso, incipriata di brina, copriva le chine di qua e di là dai sottili sentieri bruni; il musco umido odorava sulle rocce, e le macchie verdi stillavano brina: una freschezza ringiovaniva la valle; ma i radi alberi contorti e brulli sorgevano, a grandi intervalli, come eremiti nudi, espostisi per penitenza al freddo e alla luce dell’aurora. Nei seminati la terra era nera, umida; e la linea delle muricce, lunga, infinita, coperta di musco, saliva e scendeva serpeggiante: guardata dall’alto sembrava un enorme verme verde.”

Ascolto una melodia potente sprigionarsi da queste descrizioni. Periodi lunghi, ricchi di segni d’interpunzione che, tuttavia, non gravano sulla rappresentazione scenografica, non appesantiscono la narrazione ma ne definiscono il ritmo e l’intensità.
Un ultimo sguardo lo volgerei sul “finale aperto”, molto lontano da quello riportato nel testo dell’Epilogo che trovò De Michelis quarant’anni dopo l’edizione inglese del 1905, per la quale tra l'altro era stato esplicitamente richiesto un happy end. Nella versione rivisitata nel 1920 mancano alcune pagine di apertura che riportavano una citazione dal Vangelo: “E dopo che l’avranno flagellato lo uccideranno… Ed essi nulla compresero di tutto questo”. (dal Vangelo di Luca, XVIII 34), che tuttavia, nonostante il taglio al testo, sono in qualche modo riprese, e mal velate, nelle pagine del romanzo:

Quei cani rabbiosi ti hanno preso e legato, e non ti lasceranno più andar via. E la nostra casa resterà deserta, e il letto sarà freddo, e la mia famiglia andrà dispersa. Bene mio, agnello mio, tu sei morto per il mondo, così siano morti coloro che ti hanno legato!”
Nonostante la Deledda abbia tolto tale epigrafi dal romanzo, e in alcuni tratti ne abbia modificato la trama così come pure il titolo originario, le caratteristiche psicologiche dei personaggi e alcuni passaggi denunciano una forte presenza di caratteri cristiani. 


Grazia Deledda



Credo che ci sia ancora molto da scoprire e da comprendere delle opere di questa scrittrice così ingiustamente trascurata così come credo che questa edizione, pubblicata da Studio Garamond, marchio di Edizioni della Sera di Stefano Giovinazzo (curata da Renato Marvaso e presentata da Aldo Maria Morace), non sia stata soltanto ben fatta ma anche necessaria.