Educazione e dintorni

Di Educazione e di Altre Leggende

Un salvagente non ci salva la vita se non sappiamo di doverlo indossare. Allo stesso modo, diventare genitori non garantisce per forza la buona riuscita delle “pratiche pedagogiche” se non le conosciamo e se non siamo in grado di comprenderle e di cucircele addosso, facendole nostre. Così, l’obiettivo di questo spazio, è quello di offrire un punto di vista “altro” rispetto a ciò a cui è abituata la gran parte delle persone che interagisce con i bambini.
L’intento è quello di affrontare, spulciare e riflettere su quelle che sono le tematiche della pedagogia/educazione in una fascia 0-6 anni attraverso articoli, immagini, interviste, libri, esempi, pareri degli esperti; allenare la capacità di ascolto, di osservazione e di auto-osservazione per “leggere” i comportamenti i gli stati psichici dei bambini avvalendoci di una lente diversa; ciò che facciamo, non facciamo, o sarebbe opportuno fare nelle interazioni con i bambini; offrirvi da una parte agganci teorici conoscitivi e dall’altra esempi di vita pratica, sulla base delle mie competenze e dell’esperienza che ho maturato come educatrice e come madre. L’idea di educazione di cui mi faccio portavoce, si basa sulla convinzione che l’adulto debba pensare al bambino non come a un surrogato di persona, ma come a un individuo competente, con dei ritmi di maturazione specifici, peculiari e soggettivi. Il processo di sviluppo nel bambino avviene in maniera graduale e differente da soggetto a soggetto, sia nei tempi che nei modi.
Averne consapevolezza e, pertanto, possedere gli strumenti adatti per approcciarsi in modo efficace a tale processo, è la motivazione sottostante la nascita di questo spazio. Tuttavia, non intendo vendere acqua ai torrenti. E non crediate di trovare tra le righe la soluzione a ciascuna delle criticità a cui si potrebbe andare incontro quando si ha a che fare con delle risorse sempre in evoluzione, quali sono i bambini. Non esiste una ricetta infallibile affinché possiate ottenere un certo risultato; esistono la pazienza, la consapevolezza, la competenza e la curiosità di apprendere. Intanto indossiamo il salvagente.
Può anche darsi che la burrasca non arrivi, ma qualora arrivasse non saprà coglierci impreparati.



Quaerunt, Quemsensum

Scritto da Federica Lombardozzi Mattei.


Come per altre intuizioni del passato riconoscibili come attuali, Schiller scrisse: “C’è un significato più profondo nelle fiabe che mi furono narrate nella mia infanzia che nella verità qual è insegnata dalla vita.”
A dispetto del comune pensare, la saggezza non si manifesta sviluppata come Atena nella testa di Zeus, ma deve essere edificata lentamente: dalle manifestazioni più irrazionali nel bambino alla comprensione di sé e della propria esistenza nell’adulto. Nel mezzo, affinché non ci si ritrovi alla mercé delle beffe della vita, occorre sviluppare le proprie risorse interiori in modo che le emozioni, la fantasia e l’intelletto si sviluppino in armonia e si arricchiscano a vicenda. Questo implica la necessità di una ricerca di significato inteso come senso di sé, della propria identità, e del proprio ruolo nel mondo.
L’errore più comune di un genitore, o più in generale dell’adulto, è quello di credere che la mente di un bambino funzioni come la propria. O che non funzioni affatto.
In realtà, il bambino ha bisogno di impilare mattoni esperienziali in grado di edificare una personalità che vanti delle basi robuste, resistente agli urti dovuti agli imprevisti e di comprenderne il senso.
Il bambino apprende su concetti a base concreta, imitando i comportamenti dell’adulto significativo e dialogando con lui, oppure attraverso degli esempi plausibili ma non vissuti, come quelli contenuti nelle fiabe. Una fiaba, purché ben scritta, ha in sé la capacità di catturare l’attenzione del bambino, di divertirlo e di incuriosirlo.

Teniamo in considerazione il fatto che nessuno apprende tanto, e tanto in fretta, quanto una persona mossa da curiosità.

Perché una fiaba arricchisca la mente di un bambino, e la qualità della sua vita di persona pensante, essa deve incoraggiarne l’immaginazione, deve poter chiarire al bambino le sue e le altrui emozioni, palesare in modo chiaro l’eventuale criticità come pure la risoluzione del problema. Il bambino, ascoltando la fiaba, deve poter ottenerne un ordine interiore da esternare una volta a contatto con l’esterno; ha inoltre bisogno di una educazione morale che gli suggerisca i vantaggi di un comportamento onesto per mezzo di esempi tangibili, concreti, carichi di un significato riconoscibile.
Volendo considerare il modello psicanalitico della personalità umana, le fiabe offrono importanti messaggi a livello conscio, preconscio e subconscio; menzionando, in maniera più o meno velata, i problemi umani universali (e quindi anche quelli che preoccupano la mente del bambino), le fiabe parlano al suo Io e ne incoraggiano lo sviluppo, tenendo a freno quelle che sono le pressioni preconsce e inconsce. Nel bambino, come anche nell’adulto, l’inconscio è un fattore determinante del comportamento.
Affinché il piccolo risolva senza complessi le problematiche legate alla crescita (delusioni narcisistiche, dilemmi edipici, dipendenze infantili di varia natura, rivalità fraterne e così via), deve cogliere ciò che avviene a livello cosciente così da poter accogliere ciò che accade a livello inconscio.
Arrivare a questa conoscenza significa poter familiarizzare con i contenuti inconsci e fantasticare, meditare, rielaborare.

Le fiabe offrono al bambino nuove dimensioni immaginative e suggeriscono rappresentazioni su cui fantasticare a occhi aperti canalizzandone i contenuti. Tuttavia, la cultura impone all’adulto il divieto, più o meno consapevole, di mostrare al bambino l’uomo così com’è nella sua vera natura, nella sua propensione ad agire in modo aggressivo, egoistico e asociale, mosso dall’ira o dall’ansia. Di contro non possiamo, e non dobbiamo, far credere a un bambino che tutte le persone siano intrinsecamente buone e oneste; i bambini sanno già da sé di non essere sempre ‘buoni’, riconoscono le emozioni che li investono, le vivono e spesso ne sono sopraffatti. Attraverso le fiabe il bambino viene esposto alla consapevolezza che la vita può presentare delle gravi difficoltà, perché fanno parte dell’esistenza stessa, ma al contempo le fiabe forniscono la risoluzione al conflitto, alla criticità, anche per mezzo dell’immedesimazione con l’eroe. Grazie a questa identificazione, il bambino affronta le varie tribolazioni del personaggio eroico ed esulta con lui quando, attraverso le strategie risolutive messe in atto, conquista la vittoria.
Ciò che caratterizza una buona fiaba è il fatto di palesare un dilemma esistenziale in modo chiaro e diretto; i personaggi non sono unici, ma tipici; il deterrente è la convinzione che il delitto, inteso come comportamento amorale, non paghi mai. Ecco che torno a ribadire quanto le fiabe siano in grado di veicolare e trasmettere il senso morale, ma non la morale di per sé.
Infatti, a dispetto della morale col suo insegnamento razionale e a senso unico, il bambino si affida all’eroe per tenere salda la fiducia di poter riuscire e di farlo in modo "autentico" e sano. 


Consigli di lettura:

- Le tre piume dei fratelli Grimm
- Le fiabe italiane di Italo Calvino

- “Federico”, di Leo Lionni, edito da Babalibri






Homo Agricola
Scritto da Federica Lombardozzi Mattei


Il legame tra infanzia e natura è una realtà nota e consolidata.
Allo stesso modo, lo è il contrasto tra la vita naturale e quella sociale dell’uomo civilizzato, costretto in condizionamenti normativi riconosciuti, che molto spesso minano lo sviluppo infantile. Già nel 1909, nei primi testi rivolti all’infanzia, Maria Montessori dedica interi capitoli all’importanza di “vivere la natura” in modo spontaneo, ossia non limitandone la conoscenza ai testi scolastici o a lezioni sporadiche. Il concetto che sta alla base del processo d’apprendimento infantile è che il bambino impara facendo, per imitazione, e maturando esperienze dirette. Pensare di progettare un orto assieme a un bambino ha del miracoloso non solo perché ciò significa che l’adulto ha in qualche modo superato il timore, spesso infondato, che il bambino si sporchi o si faccia male, ma anche e soprattutto perché gli dà la possibilità di sperimentare se stesso nel suo rapporto col mondo naturale.
La Montessori aveva già intuito molto dei tempi moderni quando scriveva che: «La natura, in verità, fa paura alla maggior parte della gente. Si temono l’aria e il sole come nemici mortali. Si teme la brina notturna come un serpente nascosto tra la vegetazione. Si teme la pioggia quasi quanto l’incendio.»
Volendo andare oltre i recinti di pensiero che guardano al bambino come a un essere da indottrinare e contenere, i motivi per cui vale la pena progettare un orto – per, e insieme al bambino – sono molteplici. Anzitutto, concedergli la possibilità di avere un contatto privilegiato con la natura, di affondare le mani nella terra, percepirne la consistenza sui polpastrelli, conoscerne e ri-conoscerne l’odore, capirne il reale ruolo lontano da quello di far arrabbiare la propria mamma, offre al bambino un percorso sensoriale e conoscitivo inaspettato e dall’enorme potenziale. Preparare il terreno alla semina e poi inserire le sementi, annaffiare, estirpare le erbacce affinché le piante crescano sane sono una serie di step utili e necessari all’adempimento del processo agricolo; prendersi cura di qualcosa (o altrimenti qualcuno, nel caso di un animale) la cui vita dipende dalle nostre premure, dà occasione al bambino di responsabilizzarsi e comprendere il valore della presenza, della costanza, della dedizione.
Questo “prendersi cura di” è una finestra aperta sul mondo infantile, una maniera di guardare alle cose di cui l’adulto non possiede alcun merito, se non quello di adoperarsi affinché sia possibile. La quotidianità di questa esperienza, perché è di una routine che stiamo parlando (cioè di un momento sistematico fisso) e non di eventi occasionali, e le piante che nei vasi germogliano e prendono forma, mettono il bambino nella condizione di osservare il trascorrere del tempo, di poterlo valutare, apprezzare meglio. Inoltre, potrà formarsi una cultura riguardo le piante, i fiori, gli ortaggi che avrà piantato, e dedurne le caratteristiche, tra le quali anche le condizioni climatiche che più si addicono all’una o all’altra semente.
Ecco che arriviamo a quello che è l’approccio conoscitivo di base: imparare dall’esperienza diretta. Credo sia parzialmente noioso e inutile colorare in maniera estenuante dei fogli prestampati con alberi spogli, innevati o con folte fronde se poi il bambino, all’atto pratico, non ha mai avuto l’opportunità di vederli crescere, di farne esperienza tattile e olfattiva.
Il bambino deve potere maturare delle esperienze dirette, curare ed essere curato dalla ricchezza di un gesto o una serie di gesti compiuti per qualcuno che non sia soltanto se stesso, piantare e veder crescere, raccogliere e consumare. Portare in tavola i prodotti coltivati nel suo orto gli chiarisce l’importanza di non sprecare il cibo; gli trasmette più remore a gettare nel secchio qualcosa che ha impiegato tanto tempo per crescere e maturare. Il valore delle cose lo si apprende, non può essere insegnato verbalmente: la parola da sola non basta. Il bambino necessita di sperimentare, e di farlo nei tempi che gli sono necessari.
L’adulto non può pensare di proporre un’attività (strutturata o semi-strutturata, qualunque essa sia) sollecitando subito la conclusione. Bisognerebbe togliere al tempo il suo tempo, scandire i secondi col “fare” e non con lo sguardo avvinghiato all’orologio, organizzare un lavoro abbandonando ogni slancio di improvvisazione.
A tal proposito, prima di cominciare una qualsiasi attività, e dunque anche l’orto, è bene accertarsi di aver racimolato tutto il materiale necessario, in modo tale da evitare di dovere allontanarsi a recuperare ciò che manca, abbassando la soglia di concentrazione del bambino o addirittura interrompere l’attività.
Importante, anche, è avere utensili a misura di bambino, con impugnature anti-scivolo e privi di parti appuntite; utensili, insomma, gestibili in piena autonomia e facili da reperire in commercio. Credo che offrire ed offrirsi l’opportunità di avvicinarsi alla natura in modo sano e positivo, sia un’esperienza che dona giovamento bidirezionale. Ancora, la Montessori insegna che: «Noi dobbiamo ai bambini una riparazione più che una lezione. Dobbiamo guarire le ferite inconsce, le malattie spirituali, che già si trovano in questi piccoli graziosi figli dei prigionieri dell’ambiente artefatto» anziché alimentarle.

La natura è un patrimonio inestimabile di conoscenza e di benessere, basta solo riuscire ad accorgersene. 





I Capricci non Esistono
Scritto da Federica Lombardozzi Mattei.


Sarà vero che la passione dura meno di un capriccio?

Molti adulti utilizzano l’aggettivo capriccioso per riferirsi a una caratteristica personale del bambino, come un fenomeno connaturato che riguarda soltanto lui. Ma vi è mai capitato di vedere un bambino fare i capricci quando si trova da solo, o adottare quegli stessi atteggiamenti nei confronti di chi non conosce? Chi lo afferma mente, sapendo di mentire.
Il capriccio altro non è che un fenomeno di tipo relazionale per il quale, al pari di altri, affinché si realizzi è necessaria la presenza di un bambino e di un adulto significativo¹. Concediamoci i primi due piani di analisi:

1. L’aspetto manifesto che chiamerò sintomo: urla, batte i piedi, si lagna, ecc.
2.  L’aspetto latente che chiamerò causa: tutto ciò che non vedo, ma devo allenarmi a osservare.

Di solito, il sintomo ha la meglio sulla causa per due ragioni: in primo luogo, perché ha delle ripercussioni per così dire evidenti che ci imbarazzano quando messe in atto in un luogo pubblico (il classico “mio dio, ci stanno guardando tutti“), dall’altra perché va a toccare delle corde intime, personali, dalle quali l’adulto si sente sopraffatto. Prima di compiere una qualsiasi azione nel tentativo di farlo tacere fate un bel respiro e, se potete, sedetevi. Vi calmerete, concedendovi il tempo per individuare la fonte della criticità, e così il bambino avrà la certezza che non vi allontanerete lasciandolo solo col suo malessere.
I capricci, come detto, sono un fenomeno relazionale, cioè nascono all’interno di una relazione prettamente (ma non per forza) diadica, al fine di modificare una parte essenziale della relazione stessa. Ma non è tutto. In realtà, accantonate le lagne legate alla stanchezza fisica o alla fame che vanno accolte sempre e comunque in quanto bisogni fisiologici di base, ciò che procura al bambino questo nodo emotivo – il capriccio –, è sempre un bisogno al quale lui stesso non sa dare un nome, un’identità, né tantomeno un contenimento.
Nell’ottica del capriccio come veicolo per soddisfare un bisogno, potrei citare la piramide dei Bisogni di A. Maslow, sui cui livelli vi sono, a partire dal basso:

- Fisiologia (respiro, alimentazione, sesso, sonno, omeostasi);
- Sicurezza (sicurezza fisica di occupazione, morale, familiare, di salute, di proprietà);
- Appartenenza (amicizia, affetto familiare, intimità sessuale);
- Stima (autostima, autocontrollo, realizzazione, rispetto reciproco);
- Autorealizzazione (moralità, creatività, spontaneità, problem solving, accettazione, assenza di pregiudizi).

La complessità del tipo di bisogno procede dal basso verso l’alto: dai bisogni fisiologici, a quelli psicologici articolati come l’identità, la fiducia e l'autostima, vi sono elementi che il bambino riuscirà ad acquisire e ad armonizzare se potrà fare affidamento su adulti consapevoli.
Parlando di bisogni relazionali, credo valga la pena dare spazio all’analisi di quelli che Sunderland chiama il bisogno di misurare il proprio potere e quello dell’adulto (all’interno della relazione, potrei aggiungere di mio), e il bisogno di contenimento come soggetto
Il normale processo di sviluppo del bambino prevede che, a un certo punto della crescita, di solito tra i tre e i cinque anni, egli tenda a sfidarci continuamente mostrando una forte opposizione a qualunque cosa.
È cattivo e lo fa per farci arrabbiare? Assolutamente no. 
Il bambino, in questo modo, intende inviarci dei segnali, delle richieste relazionali, e dobbiamo sforzarci di coglierle. Il “no” insistente del bambino di fronte a una richiesta dell’adulto, è un comportamento dovuto e positivo: egli sta misurando se stesso, il suo ruolo all’interno del nucleo familiare; quel no equivale a “ci sono anch’io, e posso decidere, ho un’identità e voglio essere riconosciuto come membro attivo della mia famiglia”. 
Ma non è tutto. 
Opponendosi alle richieste, il bambino verifica la sussistenza e la solidità dei limiti e delle regole che i genitori gli offrono.
Un bambino ha bisogno di regole che fungano da contenimento, di confini entro cui muoversi e costruirsi come individuo pensante. Ha bisogno di verificare che i suoi genitori siano stabili e forti a sufficienza, che entrambi riconoscano la sua individualità, che lo stimino come individuo competente e che gli diano gli strumenti per realizzarsi. Se il bambino mette in atto un’opposizione per verificare la solidità delle regole che sta conoscendo e che gli danno sicurezza, e il genitore pur di zittirlo cede senza negoziare o tenere il punto, il bambino si sentirà disorientato, insicuro e frustrato. 
Va ricordato che per un bambino che ci sfida, o che si lagna perché vuole una data cosa, è più importante sentirsi un oggetto desiderabile piuttosto che ottenere quanto ha chiesto in apparenza.
Quindi cosa fare, e cosa evitare di fare?
Il bambino che si lagna, piange, si butta per terra e così via, ci sta dicendo a modo suo che è alle prese con un disagio che non riesce a contenere, a gestire, a canalizzare, a verbalizzare all’adulto. Nella maggior parte dei casi, non sa nemmeno lui cosa lo muove. Dunque, anzitutto è buona cosa evitare di urlare. Con un bambino la legge del più forte non funziona. La convinzione dell’adulto che, in quanto adulto, comanda, non serve proprio a nessuno.
Jean Piaget, nella teoria sullo sviluppo mentale del bambino, ha dimostrato che la differenza del pensiero del bambino e dell’adulto è di tipo qualitativo, ossia che il bambino non è mai un adulto in miniatura (incompetente in quanto ancora acerbo, aggiungo io), ma un individuo con una struttura propria, e che il concetto di intelligenza è strettamente legato a quello di adattamento all’ambiente. Piaget ha scoperto che la conoscenza del bambino si basa sull’interazione pratica del soggetto con l’oggetto e che, parlando dei due processi che caratterizzano l’adattamento – in dettaglio: assimilazione e accomodamento – anche l’imitazione è una forma di accomodamento, poiché il bambino modifica se stesso in relazione agli stimoli offerti dall’ambiente in cui è inserito. 
Tutto questo per sottolineare che la teoria fai-da-te tradizionale di “urlo, picchio, comando io”, non solo è distruttiva, ma una volta immagazzinata dal bambino come la sola strategia relazionale che conosce, verrà a sua volta riproposta quando il suo sviluppo dovrà affrontare degli scossoni. E non potrete dare tutta la colpa all’adolescenza.
Secondo punto chiave è distinguere tra richiesta e bisogno. Accantonando i nostri pregiudizi e l’idea del bambino che ne deriva, è bene sforzarsi di imparare a distinguere le richieste superficiali dai reali bisogni. Come? Per esempio, facendo attenzione al momento in cui tale richiesta si manifesta (magari ha solo sonno e non riesce a rilassarsi, oppure avevate promesso di fare una cosa con lui e ve ne siete dimenticati), al tono della sua voce, alle persone e al contesto sui quali il bambino fa pressione. Altro esempio: vi sentite nervosi per una questione di lavoro e il bambino lamenta improvvisamente un mal di pancia? Non ditegli che non è il momento, il tempo che manca è un’ipocrisia assoluta degli adulti, la peggiore possibile! Prendetelo in braccio dicendo che sì, siete nervosi, ma che non è colpa sua. Potreste addirittura sentirvi meglio.
Terzo memento: non assecondare le richieste superficiali e non cedere ai ricatti: evitiamo di assecondarlo purché si metta a tacere o, cosa ben peggiore, di minacciare una punizione.
Il modo migliore per stemperare il malumore è quello di comunicargli, con molta calma, che quel comportamento non vi piace e che appena avrà finito di lamentarsi potrete parlarne e trovare assieme una soluzione. Se la performance capricciosa del bambino non ha un pubblico perché non suscita interesse nell’adulto a cui è rivolta, egli non avrà più motivo di portarla avanti.
Punto quattro: premiare un comportamento corretto. 
Quando smetterà di fare del baccano, premiatelo con un abbraccio e proponetegli un gioco insieme. È preferibile rinforzare i comportamenti corretti, piuttosto che sottolineare quelli negativi.


Consigli di lettura:

- Che capricci! Topo Tip di Valentina Mazzola;
- A letto, piccolo mostro! Di Mario Ramos;
- Mai e poi mai mangerò i pomodori di Lauren Child;
- Non voglio andare a scuola di Stephanie Blake;
- Uffa mamma, uffa papà di M.L. Fitspatrick.



¹ Si consiglia la lettura delle Teorie dell’attaccamento di J. Bowlby e i Pattern di attaccamento di M. Ainsworth.





Le Regole che Regolano
Scritto da Federica Lombardozzi Mattei


Per dirla con Robert Burton: «Nessuna regola è così generale da non ammettere alcune eccezioni.»

Con questa consapevolezza in tasca, perché siano efficaci, le regole devono essere attuabili e non troppe; e nel bambino devono tenere conto del temperamento¹, della sua natura intuitiva e istintiva, e – non ultimo – delle sue competenze. Le regole non limitano il raggio d’azione del bambino; i limiti lo limitano.
I limiti sono dei termini che circoscrivono uno spazio di movimento, sono specifici di un tempo e di un luogo, e servono a tutelare l’incolumità fisica del piccolo. Le regole, al contrario, sono gli elementi con cui egli riconosce e modula se stesso nel rapporto con gli adulti, e con la rete di relazioni sociali nella quale è inserito.
Il bambino educato secondo delle regole, è messo nella condizione di costruirsi lo schema mentale che sta alla base del funzionamento della sua vita familiare e sociale, di approcciarsi agli altri in maniera efficace e soddisfacente per sé, di accogliere un rifiuto e gestire positivamente una frustrazione, di acquisire sicurezza. Mangiare seduto a tavola, viaggiare trasportato su un seggiolino, o indossare le cinture, lavare le mani prima dei pasti e i denti a seguito, riordinare, dormire nel letto e non ovunque purché dorma e così via, sono regole funzionali che gli consentono di approcciarsi al mondo e di gestire il tempo. La prevedibilità delle azioni, in un mondo infantile scandito dal fare e non dall’orologio, garantisce una sicurezza a dir poco irrinunciabile. Quando avrà esaurito l’interesse per un gioco e gli sarà chiesto di riordinare, egli avrà la possibilità di concludere l’attività anche a livello mentale, immagazzinando i processi occorsi alla realizzazione del suo lavorare.
Spogliatevi per un momento di tutte le competenze consolidate nel tempo: immaginate di essere un bambino, di abitare in una casa che state imparando a conoscere, con un caregiver² che vi impone cosa fare senza però motivarvelo, per poi contraddirsi cedendo alla vostra resistenza; e immaginate che, nella vostra più totale confusione, non avendo risposto adeguatamente alle sue iniziali richieste, vi punisca ed umilii etichettandovi come cattivo. Capirete così che le regole non possono essere imposte e non devono essere insegnate. Le regole si apprendono in maniera naturale, per imitazione, per osservazione e deduzione. Un adulto ineducato, avrà un figlio ineducato. Un adulto che pretenderà di sentire le famose paroline magiche (“per favore” e “grazie”) senza che, per primo, le usi, otterrà un risultato nullo. Il bambino digiuno di regole che non ha la possibilità di essere accompagnato nella sua crescita da adulti autorevoli e non autoritari, empatici³, aperti al dialogo, sensibili e rispettosi della peculiarità dell’essere umano nel senso più esteso del termine; diventerà un adulto con poche capacità pratiche, difficoltà di problem solving, di gestione dell’ansia, delle frustrazioni, e vivrà nella totale incapacità di autogestirsi e autoregolarsi.
Ora: nessuno può negare che essere genitori/educatori sia una faccenda complicata, che non esista una ricetta infallibile per essere sufficientemente buoni, soprattutto in quest’epoca avara di tempo dedicato e traboccante di stress, ma non è al bambino che va presentato il conto. Il bambino deve essere bambino, deve poter mostrare incertezza, paura, frustrazione e dubbio, gioia ed eccitazione; è l’adulto a doversi quindi fare contenitore delle emozioni e delle competenze del piccolo, canalizzandole affinché diventino una risorsa. Il bambino che oppone resistenza non è una persona poco ragionevole. Potrebbe farlo per rafforzare la sua identità oppure per identificarsi con l’adulto. Quando interagiamo con un bambino ne tracciamo quasi sempre un giudizio, filtrato dal nostro punto di vista, dal nostro vissuto di bambino, dall’educazione che abbiamo ricevuto, dal momento storico in cui si manifesta la resistenza alla regola. A meno che non serva a evitare una situazione di pericolo, evitiamo di iniziare la frase con il «no!» e di proporlo come unico monosillabo concesso. Piuttosto, chiamiamo il bambino per nome, abbassiamoci così da poter agganciare il suo sguardo e parliamo adagio, senza avere fretta di concludere, dando le nostre ragioni, sanzionando in modo pacato un suo comportamento che proprio non piace. Ogni volta che ci rapportiamo a un bambino, dobbiamo tenere presente che le nostre reazioni alle sue azioni sono degli atti comunicativi.
Ma come si fa a far passare le regole con efficacia e senza imporle? Anzitutto, l’adulto deve essere convinto e consapevole di ciò che sta affermando, concedendo o negando. Se siete insicuri sul da farsi, ansiosi, tentennate, affermate verbalmente per poi smentire con il comportamento, se non avete idea del perché abbiate voluto adottare quella regola, il bambino riceverà un messaggio confuso e si impegnerà in un tira-e-molla dal quale ne uscirete entrambi sfiniti e frustrati.
In sostanza: fondamentale è chiarire la natura del bambino che si ha di fronte (proprio quello e non il fratello, la sorella o il figlio dell’amica che pare tanto “bravo”); scegliere poche regole e che siano coerenti con la propria natura e con la linea educativa scelta per lui; non tradirle mai, neanche nei giorni in cui non vuole saperne di ascoltare, usando voce ferma ma non severa, avvalendosi della relazione e della empatia instaurata, negoziando se necessario; evitare di spazientirsi e di urlare, di minacciare punizioni o avanzare ricatti. Piuttosto, è meglio allontanarsi un momento, ritrovare il giusto equilibrio e poi, armati di sorriso, tornare da lui.
Se proprio capita di perdere le staffe, è molto importante chiedere scusa. Così facendo, il bambino vi potrà considerare una persona con il totale diritto di possedere dei limiti, capace di individuarli e di rivalutare i propri gesti, di assumerne le responsabilità, di ammettere un errore e voler riparare ad esso. La collera, così come tutti i sentimenti, non dovrebbe mai essere repressa, camuffata, nascosta. Il bambino e l’adulto devono potersi dire contrariati, arrabbiati, esausti; i conflitti non sono mai da guardare come fenomeni negativi, purché vengano sanati.
Al contrario, reprimere la rabbia, riversarla sul bambino, avanzare punizioni o evitare di fornire delle regole illudendosi così di amarli di più, sono gli errori tipici di ogni tempo. Credere che il bambino a cui si concede tutto sia un individuo soddisfatto, è una grande menzogna che coccola solo l’adulto. Il genitore – o l’insegnante – che si sostituisce al bambino, che lo anticipa nelle richieste, che soddisfa ogni capriccio, ne indebolisce le risorse, non offre momenti di crescita, non favorisce l’autostima e l’autorealizzazione. Di contro, la frustrazione stimola il bambino a fare uso delle proprie capacità; aspettare il proprio turno al parco per fare lo scivolo, a scuola per usare uno spazio di gioco, eccetera, lo aiuterà a cercare alternative altrettanto piacevoli, ad acquisire le regole sociali, a organizzarsi in un altro gioco.
Come sostiene M. Harris: «Il bambino non può imparare a controllare l’aggressività e le emozioni negative se non ha avuto la possibilità di provarle, di conoscerle in prima persona. Solo così può valutarne la forza e trovare in sé le risorse per imbrigliarle e, se possibile, utilizzarle per scopi vantaggiosi». Tuttavia, dovendo tenere conto delle competenze del bambino al di sotto dei tre anni, periodo in cui le regole sono concetti piuttosto astratti che richiedono processi mentali non ancora maturi, è bene abbozzarne alcune spacciandole per un gioco. Collaborare, ad esempio, al riordino dei giochi canticchiando gli svariati passaggi; sparecchiare fantasticando di essere due personaggi tanto amati dal bambino che ripuliscono la città da un attacco alieno, e così via. Per il bambino giocare è un lavoro e tutto ciò che fa a livello ludico viene còlto, elaborato e interiorizzato. Anche le regole travestite da divertimento. E non ci si arrabbi quando, per quanto ormai apprese, il bambino cerchi di trasgredire le regole. Egli potrà sempre affermare che non le sta infrangendo, ma – come sostiene il Veeck – sta «testando la loro elasticità.»

¹ Temperamento: letteralmente significa “umore”; gli antichi (da Ippocrate a Galeno) facevano dipendere l’indole dell’individuo da aspetti del tutto fisiologici. Nella storia della psicologia tale termine è stato sostituito da carattere prima, e personalità poi, passando da una concezione prettamente fisiologica a una più psicologica in cui vengono considerati tutti gli aspetti dell’individuo,e non più la sola dipendenza da fattori somatico-costituzionali.
² Caregiver: letteralmente è “colui che presta le cure”; è il termine che viene usato per indicare la persona che si occupa in modo più intimo e significativo del bambino, in particolare nei primi mesi e anni di vita.
³ Empatia: è la capacità di comprendere e di condividere l’esperienza di un’altra persona in una determinata situazione. Richiede una predisposizione recettiva, una valutazione del significato emotivo della situazione, un’esperienza interna del vissuto dell’altro e una ricostruzione immaginaria del significato della situazione per l’altro (V. Guidetti).

Problem solving: Il complesso delle tecniche e delle metodologie necessarie all’analisi di una situazione problematica allo scopo di individuare, e mettere in atto, la soluzione migliore.





Homo Lector

L’educazione alla lettura non può essere imposta, né tantomeno lasciata al caso.
Il successo dell’attività di promozione della lettura fin da bambini, infatti, è fortemente condizionato dall’atteggiamento dell’adulto, sia esso genitore o educatore, nonché dalla spontaneità della proposta. Se nell’adulto mancano motivazione e interesse, è probabile che non si ottenga alcun beneficio. Un adulto che sia alla sua prima esperienza, oltre ad armarsi di pazienza dimenticandosi dell’orologio, può documentarsi riguardo le collane, gli autori e le riviste specializzate nel settore dell’infanzia e concedersi una cultura di genere, ottimizzando la scelta dei testi che più si adattano alle varie circostanze.
Purtroppo è comune ed errata credenza ritenere troppo precoce, o addirittura superfluo, far leggere un libro a un bambino che non abbia ancora compiuto i due anni di età. In realtà, leggere – anche a quella età – significa fare un gesto nuovo, di scoperta, e soprattutto ricercare un significato, instaurare e rafforzare il legame, e introdurre a una pratica che potrebbe alimentare una passione.
Tenendo conto delle tappe dello sviluppo infantile¹, dovremmo allenarci a osservare il bambino nella sua specificità, così da rispondere in maniera più efficace possibile alle sue esigenze di crescita. Le modalità di lettura, gli spazi e i materiali utilizzati dovranno variare man mano che il bambino acquisisce nuove competenze. Anzitutto va ricordato che i bambini non sono fatti in serie, né hanno circuiti interiori identici: si è di fronte a un essere umano meraviglioso e complesso.
Lo spazio deve poter accogliere la lettura e variare costantemente ogni volta che sia necessario. Ciò che resterà invariato è la collocazione fisica di questo spazio: la lettura deve godere di una nicchia protetta, lontana da luoghi di passaggio come un corridoio, o una sala da pranzo in cui vi sono tivù e altre fonti di disturbo attive. 

Locus amoenus

Nel caso del neonato (fino ai sette mesi d’età, cioè finché il piccolo non sarà in grado di stare seduto da solo), lo spazio della lettura sarà il grembo dell’adulto. È importante, in questo primo periodo, associare l’ascolto al contatto fisico, al ritmi del corpo, compresi i sobbalzi e le tonalità ascendenti o discendenti della voce, il movimento e la mimica. L’adulto, con l’interno del libro rivolto verso entrambi, sarà seduto su un tappeto, morbido e di modeste dimensioni, su cui potranno esservi cuscini e peluches, e magari una cesta in cui riporre i libri una volta terminata la lettura; il tappeto avrà la funzione di “contenere” la magia di quel momento. Quando il bambino comincerà a stare seduto da solo e a gattonare, sarà bene aumentare la superficie del tappeto (che potrà essere meno morbido, per non ostacolare i primi approcci alla deambulazione autonoma) così che possa girare nello spazio messo a disposizione senza sentirsi costretto, o voglia allontanarsi interrompendo l’attività. Da questa fase in poi, il libro dei racconti dovrà essere sostenuto all’altezza della spalla dell’adulto, con le immagini rivolte verso il bambino e una inclinazione tale da consentire di leggere. In tal modo, nella successiva lettura autonoma, il bambino potrà utilizzare il canale visivo per collegarsi al contenuto della fiaba che avrà piacere di raccontarsi o raccontare ai suoi amici, reali o immaginari che siano.
Dal secondo anno di vita, l’acquisizione del momento della lettura, le capacità motorie e di interazione saranno tali da poter ridurre lo spazio destinato al tappeto, evolvere il contenitore dei libri passando dalla cesta a un rudimento di libreria, aggiungendo se possibile una poltroncina a misura di bambino.
Dal terzo anno in poi, lo spazio dedicato alla lettura potrà assomigliare, verosimilmente, a quello di una biblioteca per ragazzi.
I primissimi libri che sceglieremo, nella fascia zero/sei mesi, saranno quelli leggibili attraverso il corpo (altrimenti detti “sensoriali”); di stoffa o da plastica morbida, maneggevoli, atossici, lavabili, con immagini singole per ciascuna pagina e con inserti di materiali differenti per la stimolazione tattile e sonora. A questi ultimi seguiranno i cartonati, che dapprima avranno dimensioni modeste, cosicché il bambino possa esplorarli con facilità senza il rischio di strapparli e, solo più tardi, di grandezze differenti e con diversa complessità di contenuto.
Intorno ai due anni e mezzo si possono proporre i semi-rigidi, cioè libri con i fogli di una corposità maggiore rispetto a quelli con le pagine fini, da preferirsi dai tre anni in poi.

Una questione di scelta

La prima lettura, ovvero quella delle immagini, riguarda la nomenclatura dei soggetti grafici, l’eventuale relazione tra di essi, la verbalizzazione di un processo causa/effetto e la trasposizione dell’immagine sul reale. Ad esempio, l’immagine raffigura uno spazzolino e il dentifricio? Bene: «Stamattina, subito dopo la colazione, mi sono lavata i denti. Come ho fatto? Ho messo un po’ di dentifricio sulle setole dello spazzolino e poi le ho strofinate sui denti per pulirli per bene», e non dimenticate di mimare la scena!
Il secondo passaggio è un approccio di lettura un po’ più narrativo, attraverso dei testi che abbiano un vocabolario adatto agli uditori, delle frasi non troppo articolate, e delle immagini a supporto delle parole.
Il terzo passaggio – e siamo già arrivati intorno ai quattro anni – include raccontare o leggere, con uno scarso ausilio visivo (delle immagini), mimando la storia, sfruttando maggiormente la postura e i gesti.
Infine, dai sei anni circa, la lettura assume le sembianze di un racconto per il quale non si ha più uno stretto bisogno del supporto grafico.
Sulla base della mia esperienza, prima dei quattro anni di età sconsiglio di utilizzare i riproduttori audio: c’è il rischio di appiattire tutte le componenti relazionali ed emotive di cui abbiamo parlato. Consiglio, invece, l’ausilio dei props, ovvero pupazzi, marionette et similia attinenti alla fiaba, perché possono aiutare a tenere il bambino ancorato alla storia (specie nelle prime interazioni), creando una specie di aura magica di sospensione. Ne esistono di già confezionati, però è più indicato – ancora una volta per mostrare a piccolo le sue future capacità potenziali di manipolazione ed espressione della fantasia – assemblarli con calzini spaiati e vario materiale da merceria.

Homo lector: il lato pratico

Partiamo dal presupposto che prima di leggere una fiaba al bambino, l’adulto deve averla letta da solo almeno un paio di volte. Deve essere entrato in confidenza con la storia e coi personaggi, deve averli pensati con voci differenti, deve poter enfatizzare le frasi che ritiene rappresentino lo snodo di tutto il racconto. È importante, se non fondamentale, coadiuvare il canale verbale con le espressioni del viso, con il tono della voce, con la postura e la mimica del corpo al fine di rendere originale e accattivante la storia proposta e di assicurarsi di avere incluso il canale di ascolto che si adatta meglio al bambino.  Egli, infatti, ascolta in tre modi differenti:
1. Con gli occhi: il riferimento delle immagini al testo in questo caso è fondamentale;
2. Con le orecchie: prestando più attenzione all’aspetto verbale, dobbiamo fare leva sulle nostre capacità espressivi e sulle varie intonazioni di voce;
3. Con il corpo: alcuni bambini hanno persino bisogno di accompagnare l’ascolto con i movimenti mimici adoperando se stesso nello spazio per entrare nella storia e seguirla in maniera più attiva.
Queste modalità hanno molto poco a che fare con le tradizionali tappe di sviluppo, ma rappresentano al contrario una predilezione dettata da caratteristiche personali e assolutamente soggettive che a mio avviso devono essere individuate e accolte. Se il bambino si distrae o sembra disinteressato, la prima cosa da fare è cercare di comprenderne la motivazione: la trama non è adatta? Le frasi sono troppo lunghe? La lettura è incerta e sincopata? Nell’immediatezza, la strategia che consiglio è quella di passare dalla lettura al racconto così da poter terminare la storia attraverso una sorta di riassunto, senza interromperla bruscamente. Meglio evitare di rimproverare il bambino, o sentirsi arrabbiati o frustrati. Soprattutto all’inizio c’è bisogno di tantissima pazienza, che non a caso ho citato come premessa necessaria. Una volta individuata la causa della disattenzione, si possono attivare le strategie alternative al fine di scovare la modalità che meglio si addice al bambino a cui stiamo leggendo.
Ora, lettura e racconto sono due modalità di esposizione verbale piuttosto differenti. La lettura, infatti, ci obbliga a una verbalizzazione incanalata, ad un uso della lingua che potrebbe non essere il nostro, o a una scelta diversa da quella che avremmo fatto per raccontare questo o quell’episodio.
Nella lettura si è legati al testo, oltre che al contenuto. Con il racconto la faccenda cambia.  Raccontare significa utilizzare un linguaggio quotidiano, e quindi più condiviso. Significa agganciare lo sguardo del bambino senza doverlo orientare sul testo. Utilizzare espressioni “proprie” inoltre, favorisce la canalizzazione efficace delle emozioni di chi racconta, rende unico e irripetibile il contenuto raccontato. Sulla base delle proprie caratteristiche e del grado di esperienza, perciò, si opterà se orientarsi sull’una o sull’altro. E ovviamente la ripetizione della pratica darà via via più sicurezza, rendendo la lettura un momento di condivisione piacevole e soddisfacente. 
Testi utili, a mio giudizio, fino ai due anni d’età, potrebbero essere quelli della collana Tocca e senti dei cartonati tattili come Naso Nasone! di Patrizia Nencini, o Faccia buffa di Nicola Smee. Dai tre ai sei anni Il libro delle emozioni di Amanda Mc Cardie, Le carte in tavola di Fatatrac, Il lupo che voleva cambiare colore di O. Lallermand e E. Thuillier, Sulla collina di L. Sarah e Benji Davies, Gigi Baruffa di M. Lodoli, Pezzettino di Leo Lionni, Un colore tutto mio di Leo Lionni, Favole al telefono di G. Rodari, e per i più precoci e appassionati il memorabile – e fondamentale – Le fiabe italiane, un autentico miracolo narrativo di Italo Calvino. Chi poi riuscisse ad inventare da sé una storia, disegnarla su dei cartoncini e rilegarla, avrebbe dedicato tempo a un’attività di collaborazione creativa, ottenendo una fiaba personale e personalizzata sui gusti del bambino, dal valore affettivo inestimabile.



Nessun commento:

Posta un commento