domenica 26 novembre 2017

Uno spazio minimo (Recensione)

Titolo: Uno spazio minimo
Autore: Rosalia Messina




Angelica Alabiso, la maggiore di tre figli, è una bambina silenziosa, che racconta il suo vissuto di figlia, non voluta e mai compresa, che si rifugia nella fantasia per allentare le tensioni interne alle quali non sa dare un nome.

“(…) In certi momenti voglio vivere nelle favole che leggo allora, il mio amico laccio si comporta benissimo e diventa… può diventare qualunque cosa, un animale, una fata, insomma…è vivo, ecco. È vivo e mi parla. E io pure gli parlo dentro la mia testa (…)”

La cecità emotiva di sua madre Maria, donna disattenta che ha una visione della vita piuttosto grossolana e superficiale, e un padre disinteressato del mondo, chiuso nel suo lavoro e tra le pareti delle poche certezze di cui dispone, porteranno Angelica ad un “mutismo elettivo” del quale Enrico Caruso, psicologo psicoterapeuta, ci parla in maniera chiara ed esaustiva nello spazio dedicato alla Postfazione; tale silenzio rappresenterà per “l’uomo nero” un alleato, un complice.  
E poi ci sono i punti di vista di Marianna e Germano, i suoi fratelli, e quello del padre che si alternano durante la narrazione e che sembrano guardare nella stessa direzione, sebbene con occhi e vissuti diversi, dando della medesima realtà una diapositiva molto dissimile e a tratti contrapposta. 
Angelica parla costantemente di sua madre come di una persona dalla quale prendere le distanze, e della fatica di riuscire in questa impresa: 

“Fin da bambina mi sono sforzata di costruirmi una personalità differente dalla sua, ma devo arrendermi alla genetica, tanto più forte delle buone intenzioni.” 

E poi arriverà la parte più difficile, quella del suo percorso di psicoterapia, un cammino doloroso e feroce all’interno di quelle vicende dimenticate che le tornano indietro con l’energia di uno schiaffo; un ruolo di figlia puntinato di sensi di colpa, di inadeguatezza, di sentimenti irruenti e, delle volte, incontenibili; i matrimoni falliti, gli aborti, l'assenza del padre, la malattia. Di sua madre dirà:

Se non sono impazzita è perché sono riuscita a non odiarla a tempo pieno, ogni tanto mi sono riposata e ci sono state perfino volte in cui mi è sembrato di volerle bene.”

Con l'aiuto di Marianna, attraverso le foto di cui dispongono e i racconti di lei, Angelica tenterà di risanare gli squarci sul drappo della memoria:

“I decenni si sono accumulati allontanandomi dall’uomo nero, dalla sordità adulta e dal mutismo che le opposi; su tanta strada ho impresso orme che il tempo si è incaricato di sbiadire e poi cancellare.”

Rosalia Messina
Rosalia Messina è nata a Palermo nel 1955. Vive in giro per l’Italia: gli affetti e il lavoro la portano da Bologna a Milano, a Napoli, in Sicilia. Laureata in Giurisprudenza, svolge una professione giuridica che le consente di fare quotidianamente due delle cose che ha sempre amato di più: leggere (non solo libri e articoli giuridici) e scrivere. Ma scrivere di Diritto a un certo punto non le è bastato più; così, in età matura, ha realizzato il vero sogno della sua vita, cioè scrivere narrativa. Ha pubblicato nel 2010 una raccolta di racconti (Prima dell’alba e subito dopo, PerroneLab; in versione e-book con Youcanprint), testo vincitore, fra l’altro, del premio “Città di Mesagne 2010” e, nel 2013, due romanzi brevi: Più avanti di qualche passo (ed. Città del sole) − vincitore del premio “Angelo Musco 2012” come inedito e del premio “Città di Reggio Emilia 2013” da edito − e Marmellata d’arance (ed. Arianna), vincitore del premio “Metauros 2016”. Nel 2014 ha pubblicato il romanzo Gli anni d’argento (Algra Editore); nel 2015 il libro per bambini Favole a colori (Algra Editore) e nel 2016 il romanzo Morivamo di freddo, edito - in digitale e in cartaceo - da Durango Edizioni. La versione teatrale del romanzo Marmellata d’arance, realizzata insieme alla sorella Anna, ha vinto il premio “L’Artigogolo 2017”, sezione “Drammaturghi esordienti” (il testo sarà pubblicato nei prossimi mesi, in forma monografica, dalla casa editrice Chipiuneart).
Ha collaborato con i magazine on line Libreriamo  e LetteraTu; purtroppo in questo momento il tempo libero già scarseggiante si è ulteriormente ristretto (Rosalia ha la fortuna di dormire poco, ma scendere al di sotto delle quattro ore sarebbe mortale anche per lei) e riesce ad affacciarsi sporadicamente e con poche righe soltanto su Tramando, blog gentilmente ospitato sul sito dell’amico musicista Danilo Venturoli, con il quale è iniziata una collaborazione − che dovrebbe nel tempo dare i suoi frutti – in cui s’intrecciano la musica di Danilo e le parole di Rosalia.
Fra breve Oakmond Publishing pubblicherà il romanzo Uno spazio minimo (già edito in cartaceo da Melville edizioni).


Rosalia ci parla dello spazio minimo di un ascensore, di un ricordo, della parola, di un corpo refrattario alla vita e lo fa attraverso una scrittura fresca ed emotivamente potente. Un viaggio narrativo, questo, che val la pena di intraprendere.

"Come tutti, ho amato e ho attraversato il disamore. Sono stata amata, spesso male, ho abbandonato e tradito e sono stata abbandonata e tradita. Ho vinto e perso, ho creduto di penetrare il senso della vita e mi sono voltata indietro chiedendomi se davvero quel senso mi fosse chiaro, se invece non stessi brancolando nel buio. Ho avuto paura e le sono andata incontro. Ho avuto paura e mi sono bloccata. Ho rinunciato e osato. Mi sono ammalata e sono guarita. Sono cambiata e sono rimasta uguale. Sono rimasta viva. Sono arrivata in fondo a giornate che erano iniziate faticosamente. Ho sperato e disperato. E sono qui: Angelica Alabiso, madre, ex moglie, avvocato.
(...)
Una donna fragile, e dura come sono i fragili. Nulla di speciale, una persona la cui vita si potrebbe riassumere in poche parole: sono nata, sono cresciuta, sono viva, morirò. E mi va bene, mi piace. Mi basta."

giovedì 23 novembre 2017

Uomini. La stupidità in amore è una cosa seria (Recensione)

Titolo: Uomini. La stupidità in amore è una cosa seria.
Autore: Elda Lanza
Editore: Salani

L’infelicità si impara da bambini.”

Questa è la frase, incastonata tra le righe delle prime pagine del romanzo, che mi ha risucchiata completamente nella storia della protagonista la quale, ancora bambina, fu dapprima abbandonata dal padre, marito infedele, e successivamente rifiutata dalla madre che, senza starci troppo a pensare, la chiuse in un collegio. 
Diventata donna, ha dovuto sopravvivere agli anni trascorsi in totale isolamento emotivo e, quindi, a ciò che era diventata, costruendo un’immagine di sé come di una persona che merita d’essere tradita, nella carne e nelle attenzioni, e di non essere considerata sufficientemente amabile. 
Da questa convinzione, inconscia prima e negata poi, nasce l'estenuante ricerca di persone che in qualche modo le restituiscano tale immagine, rinforzandola.
La protagonista, difatti, racconta delle mille facce dell’amore, o forse sarebbe meglio definirle maschere, sentimento che in questo raccontare emerge nelle sembianze di amicizia, devozione, impegno e disincanto. Ma pure dipendenza, vulnerabilità, sospensione, mancanza di gesti semplici.

“Con Alessandro io non ho mai riso, come se la cosa fosse una cosa soltanto seria. Non abbiamo riso quando ci siamo sposati, quando è nato nostro figlio. Non abbiamo mai riso insieme. Alessandro non sa ridere.”

E ancora

“Io sono stata una delle spose più tristi del mondo.”

Come se fosse una cosa normale, dovuta, accettabile.
La donna ci racconta di un sentimento amicale scambiato per altro in un momento di debolezza di lei, di lui o forse di entrambi; l’uomo del ti amo, ma non posso impegnarmi; Yuri che è una storia mancata: “Io per disperazione, lui per timore.”
E poi c’è Marco e la sua ripicca fatta di violenza, Gigi e l’amore come atto di gratitudine, e Alessandro, suo marito, che ogni volta torna da lei come se fosse la sola casa in cui si sente di poter esercitare ciò che è.
In mezzo a questa alternanza di personaggi maschili, ai quali la protagonista si avvinghia più per bisogno che per altro, c’è Luciana, la sua amica psicologa, che tenta con parole spicciole e andando ogni volta dritta al punto, di mostrarle che quell’amore con Alessandro, che lei crede come la sola possibilità, è in realtà una malattia condivisa di cui ognuno ne possiede la metà.
Ma la protagonista non ha bisogno di “vedere” il suo amore malato, lei lo conosce bene.

Conosco la diagnosi, ma non la cura.”




Elda Lanza



Credo che Elda Lanza, con questo romanzo, abbia compiuto un miracolo emotivo addensando frustrazioni, consapevolezze, scomodi presentimenti, negazioni in un unico grumo emozionale. La scrittura di Elda porta con sé e in sé un bagaglio che non è solo stile, chiarezza, piacevolezza; è un continuo viaggio introspettivo e intimo, lacerante, pungente, sofferto. 
Ho amato molto questo romanzo, dunque tornerò presto a parlare di lei. 

lunedì 20 novembre 2017

La virtù breve (Recensione)

Titolo: La virtù breve




Legittimarsi a un confronto non è sempre la strategia migliore quando non si hanno le forze per sostenerlo.”

Si apre così il racconto che vede l’avvocato Venezuela seduto al tavolo di un ristorante nel centro di Madrid in compagnia di Katia, una ragazza appena conosciuta.
Gli episodi narrati subiscono continue virate, ad opera di un narratore onniscente che ci porta avanti e indietro nella vita del protagonista, riacciuffando dal baule dei ricordi vicende appartenenti al suo passato ovvero aneddoti, eventi e tragedie della sua giovinezza. Attraverso questo resoconto di vita, Katia si forma l’immagine dell’avvocato Venezuela come di

un uomo che non riflette troppo, se non per niente, sulle conseguenze dei propri gesti”.

In questo raccontare, che si avvale di una forma linguistica priva di fronzoli, diretta, e “a tratti esasperata”, confluiscono pensieri, valutazioni e nevrosi manifeste e chiare.
L’avvocato Venezuela possiede un “handicap sociale”, è uno sconclusionato emotivo, privo di regole e di buon gusto, divoratore seriale di fattezze femminili. O almeno lo è stato.
Poi la svolta, un percorso personale e solitario che lo porterà a una consapevolezza, necessaria ma spietata, dalla quale non potrà salvarsi.


Stefano Savastano è nato a Busto Arsizio nel 1973; si è formato in cinematografia e comunicazione al Dams di Bologna e all'Università Complutense di Madrid. Lavora come consulente per la produzione cinematografica e come autore di testi per la comunicazione. La virtù breve è il suo primo romanzo. 


La scrittura di Savastano possiede una lucidità consapevole, è ironica e a tratti aggressiva. Credo che l’autore abbia voluto sovvertire volutamente la forma del suo narrare, riuscendo appieno nel tentativo, al fine di creare delle nuove prospettive emotive e orizzonti narrativi differenti.

“Quanto in profondità può scavarti un’emozione? Quando una sensazione smette di essere un’emozione? Quando viene sopraffatta dal potere del pensiero. Artificiale e prepotente.”



giovedì 16 novembre 2017

La resistenza del maschio (Recensione)

Titolo: La resistenza del maschio
Autore: Elisabetta Bucciarelli
Editore: NNE


Ci sono libri che si limitano a raccontare una storia e, nel farlo, a volte si perdono in descrizioni grottesche, al limite del credibile. E poi ci sono libri come questo che nella storia ti ci catapultano: la senti, la vivi, ti emozioni. 
Nessuna conclusione certa, ma le vite di cui l’autrice ci racconta, ti passano davanti sotto forma di diapositive: verosimili, nitide, esaustive. I protagonisti diventano come amici che a tratti biasimi e con cui, in altri momenti, ti allei: Marta, Silvia, Chiara, l’Amico, persone apparentemente distanti, ma le cui vite si ritroveranno inesorabilmente intrecciate. 
E poi c’è Marco, il protagonista, il maschio resistente. È un uomo che resiste all’idea che ha di sé, resiste a se stesso e a ciò che di convenzionale lo circonda.

L’uomo ha una moglie, una casa, un buon lavoro. È abituato a misurare tutto: lunghezze, larghezze, proporzioni, intervalli. A differenza di sua moglie, lui un figlio proprio non lo vuole. Una notte assiste a un incidente stradale che, suo malgrado, gli cambierà la percezione della vita.
E poi di contro, in una sala d’attesa ci sono le tre donne, e i loro ventri fiduciosi e fertili, che parlano di uomini, di un tipo di uomo che sembra voler resistere, non concedersi.
Inconsapevoli, andranno incontro alla più profonda forma di “concessione”.

Questo è un romanzo che sa farsi amare, oltre che leggere con una spiccata fluidità, perché la Bucciarelli ha uno stile concreto, pulito, diretto. Non tergiversa, non complica, ma allo stesso tempo non riduce; utilizza vocaboli e aneddoti che non concedono fraintendimenti.


Elisabetta Bucciarelli è nata e vive a Milano, dove si è diplomata in drammaturgia presso il Laboratorio di scrittura drammaturgica del Piccolo teatro di Milano. Ha lavorato sui temi della scrittura partecipando a seminari presso il Piccolo Teatro di Milano con Giorgio Strehler e a San Marino con Tonino Guerra. Come giornalista ha collaborato con diverse testate occupandosi di attualità, cinema, arte, psicologia e nuove tendenze. Si occupa di libri per Booksweb.tv e per alcune testate giornalistiche straniere.
Ha collaborato alla stesura di testi teatrali (tra questi Ginepraio del 1992, selezionato da Franca Rame e A cura di tutti del 1994) e cinematografici (tra cui Amati Matti del 1996, Fame chimica del 1997), e ha firmato due cortometraggi per Rai Art. Ha pubblicato i saggi Io sono quello che scrivo. La scrittura come atto terapeutico e Le professioni della scrittura e i romanzi Happy hourDalla parte del tortoFemmina de luxeIo ti perdono e Ti voglio credere e Corpi di scarto, oltre a numerosi racconti su riviste e antologie.
Io ti perdono si è aggiudicato la Menzione speciale della giuria al premio Scerbanenco 2009, "Per l'originalità della scrittura e l'indagine psicologica", e il Premio Fedeli 2010. "Ti voglio credere" ha vinto il premio Scerbanenco 2010, per il miglior romanzo Noir edito. "Corpi di scarto" ha vinto nel 2011 il premio Lucia Prioreschi per il miglior romanzo noir dell'anno. Nel 2015 esce "La resistenza del maschio" (NNE) e nel 2017 "Chi ha bisogno di te" (Skira).
È tradotta in lingua tedesca, spagnola e francese.

“La lontananza, il punto da raggiungere, le altezze. La perfezione delle geometrie. L’azzurro che non si riesce a toccare, composto da ipotesi. La relazione con il desiderio, qualsiasi cosa lo inneschi. I particolari, i frammenti. Milano (e questo libro, aggiungo io) è fatta così, ti concede la visione d’insieme, ma l’anima devi cercarla nei dettagli.” 

mercoledì 8 novembre 2017

Ritratto di Jennie (Recensione)

Titolo: Ritratto di Jennie
Titolo originale: Portrait of Jennie
Autore: Robert Nathan
Traduzione a cura di Simone Caltabellota



Una sera, mentre sta tornando a casa, il giovane pittore squattrinato Eben Adams incontra una bambina con indosso vestiti che sembrano usciti da un’altra epoca.

Il mio corpo sembrava leggero, senza peso, fatto dell’aria della sera. Anche la ragazzina che giocava da sola nel mezzo del viale non faceva alcun suono. Giocava a campana; saltava in aria con le gambe divaricate e quindi toccava di nuovo terra, silenziosa come le spore di un soffione.”

Jennie è lì da sola e, senza alcun apparente motivo, inizia a camminare di fianco all’uomo e a parlare con lui. Quando Eben le chiede quale sia il suo più grande desiderio, Jennie gli confida:

Vorrei che tu aspettassi che io diventi grande.”

Eben ignora che da quel momento in poi la sua vita, e il suo modo di guardare al mondo, cambieranno radicalmente; che quella bambina diventerà una donna grazie alla quale, attraverso le vicende narrate con uno stile che fluttua tra il reale e il fiabesco, egli scoprirà cosa significa l’arte e soprattutto l’amore.

Non sapevo perché ci fossimo incontrati, o come era accaduto. Anche ora non lo so. So solo che era destino che fosse così, che la linea della sua vita si intrecciasse con la mia; e che neppure il tempo né il mondo potevano separarci.”

Questo capolavoro del Novecento, pubblicato per la prima volta nel 1940, è la storia di un amore che sfida il tempo e la morte, una narrazione romantica e toccante che invita il lettore a riflettere sulla natura dell’essere umano, dell’amore e del destino. Una scrittura dal gusto dolciastro e frizzante, questa, in cui i dialoghi e le descrizioni sono rese con uno slancio poetico, e restano quasi sospese. Una sospensione che guida il lettore in una New York opaca, avvolgente e remota ma inevitabilmente moderna.

Un libro dalla linea grafica impeccabile, con la copertina in cartoncino Chagall Bianco da 260 gr che è molto piacevole al tatto; elegante e sobrio. Sono libri stampati in tiratura numerata (999 copie)  pubblicati per la prima volta nel novembre del 2015 e andato in ristampa nell’ottobre 2016. Un capolavoro di scrittura per Nathan e di “veste” per Atlantide.

Robert Nathan nasce a New York nel 1894 (e morirà a Los Angeles nel 1985 a 91 anni) in una facoltosa famiglia. Istruito alla Harvard University, nel 1912 inizia a scrivere la narrativa e la poesia. Dopo diversi tentativi di scritture che non raccolsero il parere favorevole di pubblico e critica, nel 1940 scrive quello che è considerato ancora oggi il suo lavoro meglio riuscito: Ritratto di Jennie, appunto. Questo libro è considerato un capolavoro moderno di fantascienza, e ne è stato prodotto anche il film interpretato da Jennifer Jones e Joseph Cotten. Oltre a diversi romanzi, ha scritto inoltre poesie, racconti per bambini, sceneggiature e novelle. 



Anno dopo anno la primavera arriva, aveva detto lei, e domani è sempre. Quando infine non c'è stato più domani, mi è restato da ricordare l’ieri. Anche ieri è sempre.”


giovedì 2 novembre 2017


Autore: Ivano Porpora
Edito da Marsilio

Di questo romanzo colpiscono vari elementi; anzitutto la sua ripartizione in tre porzioni di un unico insieme, ben articolata: due fratelli, Bastien e Arséne cresciuti in un angolo della Provenza che, per uno dei due, rappresenterà il "luogo della memoria" di un evento drammatico; un giovane e irrequieto pittore, Severo, che chiederà ad Arséne, ormai affermato astista, di fargli da maestro e, infine, un uomo adulto privo di ogni speranza se non quella di morire.

E poi c’è la fisicità, la nudità intesa nella sua componente primordiale, di natura e naturalezza, la concretezza di una scrittura che narra di corpi che, attraverso l’amore, la malattia, la morte e l’arte, impongono la loro materialità. Il nudo qui non sta a significare solo privo di veste; è un mettersi a nudo, senza filtri né paraventi. Questa storia è come un vestito a balze d’organza, l’una a succedere all’altra in uno spazio circoscritto ma in divenire, trainata da tre protagonisti, due dei quali piuttosto ingombranti, con un corpo emotivo obeso e con un approccio sentimentale per l’uno bulimico e per l’altro anoressico. Anita, Severo e Arséne sono animati dalla continua ricerca del “cosa”: nell’amore, nell’arte, nella quotidianità del loro rapporto intrecciato e vincolante. Il “perché”, invece, arriva addosso al lettore quando, nella seconda parte, emergono le fondamenta di tutti i processi psicologici, delle dinamiche familiari che hanno plasmato e indirizzato i protagonisti verso certi comportamenti e talune scelte.


Foto da Liberaria Editrice