venerdì 11 gennaio 2019

Il peso minimo della bellezza (Recensione)


Titolo: Il peso minimo della bellezza
Autore: Azzurra de Paola
Edito da LiberAria Editrice









“A sette anni non lo sai perché odi i baci di tua madre. Ti senti in colpa, ti dispiace, vorresti proprio farla contenta e ti mortifichi. Passi cinque ore seduto al banco a pensare quanto tu sia cattivo. (…) E allora vivi da cattivo. Ti trasformi nell’idea che hai di te stesso, come se al mondo non dovessi meritare più altri baci perché hai rifiutato quelli di tua madre e quindi la tua fetta di felicità l’hai già avuta. Ogni cosa che fai credi di farla perché sei cattivo o credi che se fossi buono ti riuscirebbe meglio. (…) Perché a sette anni non hai un metro di paragone. Non sai che esistono altre famiglie. Cioè, lo sai ma è come se non lo sapessi. (…) Pensi con la testa di un bambino di sette anni cattivo che non vuole essere baciato da sua madre. E con il tempo diventi (grassetto mio) quel bambino, quello cattivo. Anche se non lo sei. Perciò ti comporti male, sei arrabbiato, rumoroso, dai fastidio in modo che tutti possano riconoscerti lo status di bambino cattivo e che tu possa scusarti per questo.
Prendere le botte. Espiare.”

È un viaggio questo che tocca la punta di un iceberg doloroso, nervi tesi e scoperti, corde dagli echi striduli. Il rapporto tra madre e figlio indagato in modo viscerale, passando attraverso delle fasi entro le quali il racconto viene incastonato.

La prima fase è quella della Negazione, in cui prendono piede le figure materne assenti, le madri che non sono mai cresciute, quelle mosse dagli isterismi della propria inadeguatezza e quelle che, in un figlio, cercano accudimento:

Avevo un anno, più o meno, quando stavi seduta a guardare dalla finestra e mi tenevi stretto a te cantandomi la ninnananna che tua madre cantava a te e sua madre a lei. Mi tenevi stretto e dicevi: siamo io e te. Siamo solo noi.
E credo proprio che tu avessi un gran bisogno di me molto più di quanto non fosse il contrario. Questo credo.”


La seconda fase riguarda la Rabbia che, come nella maggior parte dei casi, sfocia nell’aggressività, un sentimento feroce che trova nella bocca un luogo di accanimento; la bocca che morde, strappa, mastica, che lascia che ci si sazi di qualcosa che viene dal dolore e che, quindi, non regala nutrimento:

“E lui, il Dottore, che ti osservava solo un attimo mentre tu guardavi altrove e ti prendeva la mano. La mano rifiutata, quella che io non ho voluto, quella che contiene lo spazio vuoto della mia. Ecco, lì ci si infila la sua.
E tu la stringi.
E tu dici grazie (grassetto mio) a bassa voce.
E tu pensi: meno male che ci sei.
E io vorrei prendere a mangiarmi le dita e le mani fino ai gomiti e poi continuare fino alle spalle, inghiottirmi intero e vivo. Mangiarmi pezzo per pezzo. Infilarmi dieci dita in gola, masticarle e mandarle giù per poi continuare con i polsi. Questo vorrei fare mentre lui ti tiene la mano. Di nuovo, una mano sottratta con l’inganno. Solo perché è la mano che io non ho voluto. Un altro mangiatore di avanzi. “

Nella fase III ci si imbatte nel Patteggiamento, che altro non è che una negoziazione con la propria coscienza nel maldestro tentativo di applicare manovre apprese di espiazione:

“Ho imparato da te che ogni colpa va espiata. Che bisogna pagare il più possibile per non essere perseguitati dai propri errori. Che talvolta il solo modo di chiedere perdono è rimanere soli. È la privazione. (…)
Quando tornai a casa, passai tutte le notti con il rosario in mano a cercare di rimediare ai miei errori. A cercare di trovare una soluzione che andasse bene per me. Per ricominciare a dormire. E non c’era modo per aiutarmi. Con le stesse preghiere che avevo sentito dire a te, nelle lunghe notti di disperazione e di inferno.”

La fase IV, ovvero la Depressione, palesa quanto sia complicato penetrare la diade madre/figlio senza che vengano smossi gli equilibri, sebbene precari, su cui poggia:

“Improvvisamente è tutto chiaro. Scappo dalla tua mano e corro in camera mia. Sbatto la porta. (…) Niente di quello che c’è fuori può servirmi ora che sono al sicuro qui dentro. Tra i miei giocattoli conosciuti. Vicino al mio letto fidato. Davanti al mio armadio sincero. Non voglio niente del tuo mondo di bugie, profumi che non riconosco, pareti di casa che approfittano della mia assenza. Tieniti tutto. Mangia i biscotti. Guardati la televisione.
Stai da sola.
Questa è la mia punizione.
Lasciarti dietro a una porta chiusa senza risponderti.
(…)
Questa è la mia punizione per avermi tradito, mentito, ingannato. Per avermi mandato a scuola proprio il giorno che veniva lui. Riconosco il suo odore di guanti di lattice e disinfettante. (…) Riconosco la luce che hanno i tuoi occhi dopo che li ha guardati. Sento come cambia il suono della tua voce dopo che lui l’ha ascoltata. I segni inconfondibili del suo passaggio. Camuffati male chiudendo la porta della stanza in cui siete stati insieme. Per non farmi vedere, per non farmi impicciare. Per tenermi all’oscuro. Per fare le cose senza di me.”

E poi La morte e il morire, La fine. L’epilogo del dolore, il cerchio che si chiude come un laccio su tutte le parole rese orfane di suono, l’inconsolabile distanza e il silenzio.





Credo che in questo libro sia condensato un lutto che va al di là della perdita in sé, è qualcosa che si riverbera oltre, nella desolazione del non aver mai avuto, ottenuto, meritato. Un percorso faticoso esplorato camminando i passi incerti di una madre poco consapevole del proprio agire inadatto, e un figlio sul quale si adombra una figura materna eccessivamente accudente, frustrante, ambivalente. Una madre non "sufficientemente buona", l’inconsapevolezza, gli scarti emotivi, la ridotta comunicazione che sfocia con impeto nell’incomprensione più delirante.
Una scrittura decisa quella di Azzurra de Paola, direi essenziale, a tratti feroce.
Un libro nel quale credo sia inevitabile intercettare un po’ di sé.
E che sia in veste di genitore o di figlio, cambia davvero poco. 


Nessun commento:

Posta un commento