Titolo:
Io non c’ero
Autore:
Giuseppe Tomei
Edito
da Aurora Edizioni
Piero,
Marco e Massimo sono tre amici accomunati dall’amore che mettono nelle cose che
fanno e che però, a un certo punto, per uno di loro diventa una propulsione insufficiente.
C’è bisogno di aria nuova, di altre prospettive, di cambiamento. E lui lo fa
raccogliendo i pezzi della sua vita e del suo amore per Elena, per poi trasferirli
in un’altra città.
Ma
è una madre quella che lascia, una terra col ventre spaccato che ha perso i
suoi figli; Federico, il figlio di Massimo, ci torna controvoglia, almeno
apparentemente, trovandosi davanti al rudere di quella che era stata la casa
del padre, la sua vecchia roulotte nel garage con una foto consumata al suo
interno. La desolazione, l’abbandono, il “marciume” e un solo unico punto di
svolta: le erbacce, selvatiche e testarde, che resistono
“Venti minuti dopo l’autovettura
si ferma in un piazzale di fronte ad una casa singola, separata dal resto del
mondo da un’impalcatura, puntellata per tenerla stretta e unita come fosse
ancora intera nonostante i gravi danni strutturali. (…)
Scende dal taxi, paga,
prende le valigie e rimane da solo a fissare la dimora, una ragnatela di crepe
sui muri, finestre rotte, polvere e abbandono, ferite non ancora cicatrizzate a
dispetto del passare taumaturgico del tempo.
Inserisce quasi con
scetticismo se non addirittura mancanza di fede la chiave nella toppa, l’uscio
nonostante la sua diffidenza si apre, seppur cigolante e ormai male in asse sui
cardini arrugginiti.
I raggi solari fanno
luce sulla muffa verdastra che sporca le pareti interne, i mobili sono ancora
tutti al loro posto ma l’umidità li ha resi fradici di marciume.
La grande finestra che
dava sul giardino rivela la parte posteriore: un cumulo di macerie ricoperte da
erbacce.”
Questo
racconto, esile nello spessore ma robusto nei contenuti, è un insieme di tante
cose. Tantissime.
È
un ritornare alle origini, un reagire di fronte a degli eventi su cui non
abbiamo né controllo né predizione, l’incaponirsi
della vita che vuol fare il suo corso nonostante tutto, il bisogno di guardare
avanti senza dimenticare, perché è nel ricordo che resta depositata la vita.
“Le cose normali, le frasi di tutti i giorni,
non avevano più senso: è ora di
colazione, fra dieci minuti ho un colloquio di lavoro, non vedo l’ora che
arrivi la mia amante… (grassetto mio) non vedo l’ora… qui nessuno guarda più l’orologio. Non avevamo il tempo (grassetto mio) a dirci cosa fare, si aspettava che
scendesse semplicemente la notte, che facesse buio, spesso ubriachi, ridendo a
voce alta, come per dimostrare che non avevamo paura o almeno che non ne
avevamo più ma era una bugia, lo sapevamo e lo sapeva anche il buio.”
Classe
1971, attivo dal 1998 nel panorama letterario, teatrale e radiofonico aquilano.
Per citare solo alcuni suoi lavori: nel 1998 pubblica “1848, UNA STORIA
PRETURESE” insieme ad Agostino Ciccarella, libro-indagine; nel 2012 scrive e
sceneggia la webserie “CONSONANTI”, per la regia di Francesco Paolucci,
interpretata da Luca Serani; nel 2016 è autore di “RIGENERAZIONE”, atto unico
interpretato da Simona D'Angeli e Giancarlo Curio con le musiche di Domenico
Capanna e Giovanni D'Eramo, rappresentato presso l’Auditorium del Parco di
L’Aquila; nel 2017 scrive e dirige “Donna e Dama”, rappresentato nell’ambito
del cartellone della Perdonanza Celestiniana; dal 2017 è gestore e
co-responsabile di SpazioRimediato, teatro off e polo culturale in L'Aquila,
presso il quale organizza spettacoli teatrali, concerti ed attività formative
rivolte ad adulti e bambini.
Contrariamente
alle aspettative, come Giuseppe ha spesso sottolineato, questo racconto non è
il resoconto di un terremoto, o almeno non solo aggiungo io, ma di consapevolezze
rafforzate o conquistate, di cose che cambiano, che si rompono e possono (o
devono) essere riparate sebbene si vedano ancora le crepe, come cicatrici che
restano. In questo racconto, il fatto critico che tiene insieme il prima e il
dopo come il cardine la porta allo stipite, è un evento enorme che contiene in sé qualcosa
di devastante, che incrina muri, schiene e progetti, che fa demordere e arrabbiare,
che da forma alle paure.
È
un racconto che si sviluppa su un binario sul quale si avanza e si retrocede di
molti anni, tra uno slancio verso il mutamento e la necessità, quasi fisica, di
lasciarsi trattenere a terra da radici forti quanto esposte.
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