Titolo: La
cantina
Autore: Mauro
Fabi
Edito
da Avagliano Editore
“Quando arrivò la telefonata, alle quindici e
quaranta del 2 agosto 1976, Maurizio Raimondi era chino sopra la tazza del
cesso con due dita in gola e una corona di spine dietro la fronte.
In quella posizione, pur sopraffatto dal dolore, pur
circonfuso da una commiserazione di sé che rasentava il misticismo, affiorava
dalle paludi sacrificali in cui era immerso come una specie d’ironia, un
risveglio della ragione: era in quei momenti che invocava la morte.”
Inizio
esattamente dall’incipit di pagina 5, e lo faccio per un motivo, ma prima
facciamo un passo indietro.
In una giornata
di inizio agosto, pronti per trascorrere una giornata al mare in famiglia, Giulio
Spadoni scende in cantina per recuperare il canotto del figlio, e non risale
più. Inghiottito dai sotterranei labirinti condominiali, l’uomo lascia del suo
passaggio solo una scarpa.
Maurizio Raimondi,
commissario di mezza età invischiato in una relazione sentimentale, ormai
giunta al capolinea, con una donna sposata, inizia a indagare sul caso. E fin
qui parrebbe piuttosto coerente e pure interessante se non che, avanzando nella
lettura ho spesso la sensazione che la trama sia sul punto di deragliare. Tale
impressione è scatenata da due motivi: il primo è legato all’ampio spazio offerto
alla descrizione dei cunicoli sotterranei senza che però le indagini arrivino
mai a un punto di svolta. È un girovagare che prende le sembianze di “altro”:
“Ogni volta che scendeva lì sotto (…) non poteva
fare a meno di trovare una similitudine inquietante tra quel labirinto e la sua
anima.
A mano a mano che si addentrava nei corridoi stretti
questa sensazione cresceva. Era come se stesse avanzando dentro le sue angosce,
come se stesse esplorando un territorio sconosciuto, e quel territorio era
lui.”
Quei cunicoli
interminabili, le diramazioni improvvise, il senso intimo e confuso di questo
labirinto, la paura di perdersi, di inalare aria che si fa improvvisamente
irrespirabile, il buio, la solitudine, il bisogno di fuga.
Il secondo punto
sul quale mi interrogo, una volta arrivata oltre la metà del testo, è come mai
la vita e le emicranie croniche e devastanti di Raimondi occupino interi
capitoli.
Ed era qui che,
invece, si addensava il senso della trama, di un thriller che non è
comportamento, azione, ricerca, ma verte sul senso profondo del decidere della
propria vita, dell’autodeterminazione a prescindere da tutto, da ciò che si
lascia o che si vorrebbe tutelare. È indagato l’uomo e le sue fragilità, le
paure, le aspettative, il senso di solitudine. Mi sarei aspettata delle
indagini poliziesche invece qui, a essere indagato, è l’animo umano.
Mauro Fabi è
giornalista, scrittore, poeta. Vive a Roma. Ha collaborato con l’Unità e Le
Monde Diplomatique. Dirige il magazine culturale Via Po del quotidiano
nazionale Conquiste del lavoro. Ha pubblicato i romanzi La meta di Luan (Mursia, 2000), e Il pontile (Nottetempo, 2006) e le raccolte di poesie Il motore di vetro (Palomar,2004) e Fiori in pericolo (Avagliano, 2007). Una
terza raccolta è stata pubblicata in Francia nel 2010, col titolo Le Domaine des morts. Nel 2012, sempre
in Francia, è uscita la quarta raccolta poetica, Tous ces gens qui meurent.
Fabi racconta il
suo protagonista con una cura certosina, ne rende palpabili i pensieri e
perfino i dolori. Lo “umanizza” addensando i pregi e i difetti attorno alla
prospettiva della mancanza, dell’ineluttabilità delle cose; di una scelta che
diviene la sola salvezza possibile, la sola via di fuga.
Come un cerchio
che si chiude esplicitando solo alla fine il suo senso circolare, questo
romanzo mi ha toccato in un sentimento che raramente mi concedo: l’angoscia per
un personaggio che avrei voluto “trattenere”.
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