Cronache di uno sfigato

Cronache di uno sfigato è la rubrica ideata e scritta da Gianluca Campagna la cui mission è quella di raccontare "aneddoti, cronache, riflessioni dove facilmente riconosciamo nostri momenti di vita vissuta e dove puntualmente ci pentiamo di essere nati".
Ma chi è Gianluca Campagna?





Gian Luca Campagna (Latina, 1970) scrive e legge per evitare il processo di analfabetismo di ritorno.
Giornalista, comunicatore e scrittore, ha prodotto un numero enciclopedico di racconti, ha pubblicato i romanzi ‘Molto prima del calcio di rigore’ (Draw Up, 2014), ‘Finis terrae’ (Oltre, 2016), vincitore del Premio Romiti sezione emergenti e secondo al Giallo Indipendente del Salone del Libro di Torino, ‘Il profumo dell’ultimo tango’ (Historica, 2017), vincitore del premio della giuria al Barliario SalerNoir. Il suo prossimo romanzo uscirà a settembre per i tipi della Frilli. 
Per insulti personali, generalizzati e costruttivi consultate prima e dopo i pasti il sito:

www.gianlucacampagna.eu

Tolto ‘Ila e le Ninfe’ perchè maschilista, ma il giovane era gay

Maschilismo preraffaellita e femminismo omofobo. Quando si ha della vita una visione manichea si rischia di smarrire la verità. E tutto per compiacere #MeToo, la campagna contro le molestie sessuali ormai diventata virale. È quanto è accaduto a febbraio 2018 a un celebre dipinto di John William Waterhouse, affascinato e sedotto dal mito di Ila. Waterhouse è stato un pittore della Confraternita preraffaellita, particolarmente attivo su dipinti del ciclo mitologico e arturiano, ma ha subito lo smacco dello sfratto dalla Manchester Art Gallery: infatti uno dei suoi dipinti passati alla memoria collettiva è stato ritenuto offensivo. ‘Ila e le Ninfe’ (del 1896) a insindacabile giudizio di Clare Gannaway, infaticabile curatrice della collezione d’arte contemporanea del museo, è stato rimosso dalla parete perché colpevole di esprimere un linguaggio maschilista e offensivo nei confronti delle donne. Ve lo ricordate il quadro, no? Ila, un teenager muscolosissimo e di bell’aspetto, si sporge sullo stagno dove sette ninfe stanno evidentemente raffreddando i propri estrogeni. 


Al di là dei boccacceschi commenti da caserma che ci ha sempre suscitato un dipinto del genere, rosi più che altro da una sana invidia maschia, immersi sui testi d’arte e di mitologia scoprivamo però con una certa delusione la natura di Ila. Hai voglia cara Miss Gannaway a lanciare il suo anacronistico j’accuse di stampo femminista su Waterhouse e su quel frame dai toni impressionisti e pionieristici rispetto a Snapchat, ma la nuda (è il caso di dire) verità è un’altra.
Potremmo anche pensare che sia stata una forma di marketing museale, tant’è che la parete orfana del dipinto è la più ‘visitata’ ed è stata tappezzata da post-it da parte dei visitatori in cui ognuno lascia un proprio commento (e non sono molto lusinghieri per questa forma di censura artistica). 
È vero che non siamo di fronte a una sindrome di Stendhal davanti a contemporanei foglietti gialli vergati da appassionati e scolaresche, ma restiamo basiti dalle argomentazioni di Miss Gannaway, che ha tolto quella tela a suo dire rappresentante la mercificazione delle nudità femminili, allontanando dal museo quei corpi fissati dalla cupidigia maschile e da una voluttà porcina presente in tutti coloro che negli anni si sono imbattuti nelle bianche carni delle sette ninfe.
Ebbene tutto ciò è un falso ideologico. E sì, basta leggere il mito di Ila. Il giovane belloccio, invidiato da noi tutti sin dai tempi della pubertà, era in verità il compagno di Ercole. Il forzuto spaccamontagne non solo lo rende orfano ammazzandogli il padre, ma lo rapisce perché se ne era invaghito, presto ricambiato. 
L’eromeno, cioè nella cultura classica l’adolescente che ha un rapporto di profonda amicizia virile con un adulto (che non è detto che abbia una finalità sessuale), si imbarca con la truppa degli Argonauti assieme al suo amato. Durante uno scalo della nave a Misia (nella Turchia asiatica) la coppia di innamorati sbarca per cercare una fonte d’acqua dolce, Ila trova presto uno stagno d’acqua potabile ma le ninfe che danzano nei prati se ne innamorano subito, talmente tanto che appena il giovanotto dai gusti sessuali contrari prova a fare scorta idrica quelle se lo trascinano via. Ercole accorre alle grida disperate di Ila (che sa bene qual è il futuro che lo attende: sette ninfe affamate di sesso che lo violenteranno a turno chissà per quante notti non è una bella prospettiva), ma ormai è troppo tardi, il giovane è stato rapito per l‘eternità e non ci sarà nessun riscatto da pagare.
Ebbene, cara Miss Gannaway, ora è lei a essere accusata di omofobia. Lei probabilmente non tollera la scelta di Ila di non includere la bellezza femminile tra i propri gusti sessuali, evidentemente è una discriminante che sfocia in una bieca censura. 
Povero Ila, che ha subito in vita una ripetuta violenza carnale consumata tra i giunchi del Bosforo da parte di ossesse del sesso mentre ora il suo mito artistico viene oscurato perché fatto passare per uno spregevole maschilista, seduttore di pavide e verginali fanciulle.



Il cielo è sempre più blu grazie alle donne

Il cielo è sempre più blu. Eh sì. In un Paese dilaniato ideologicamente, la bandiera azzurra resta il collante per una società sempre più conflittuale, di classe e di etnie. Se è vero che gli italiani vanno alla guerra come a una partita di calcio e a una partita di calcio come alla guerra (Churchill docet), restiamo un Paese nel pallone che cerca - e trova - nel calcio un senso di comunità tipicamente latino, dove concentrare gioie e frustrazioni della vita. In un momento buio per l’azzurro pallonaro (le tristi esperienze dei Mondiali 2010 e 2014 e la non partecipazione al 2018), ecco che i mass media spingono per allietarci rispetto all’attuale grigiore politico e culturale. 
Ampio spazio alle qualificazioni europee degli azzurri di Mancini, altrettanto all’Under 20, ancora a quella dell’Under 21, da sempre trampolino di lancio per la Nazionale maggiore. E poi tutto il can can mediatico (e non da balletto del Crazy Horse, eh) per le azzurre impegnate al Mondiale francese. Qua, addirittura, il pubblico sembra impazzito, le testate giornalistiche più autorevoli diventano autoritarie concedendo spazi e spazio, applaudendo le geometrie di gioco e incensando le cosce muscolose delle ragazze terribili. 


Al di là della qualità del gioco che non metto esteticamente in discussione (è calcio femminile, eh. Ma lo dico senza sarcasmo, riferito alle basse ironie dei palati fini innamorati della Champions League), ci sono due-tre aspetti che mi fanno riflettere: la grinta delle donne quando giocano non concede sconti, rullano come cinici compressori le avversarie (chiedere all’allegra brigata thailandese travolta dalle Marines americane per 13-0), poi c’è qualche pecca discriminante (stavolta ironica) nella figura arbitrale poiché non c’è la sparuta presenza maschile in una sorta di applicabile par condicio. E, poi, consentitemelo, l’aspetto più culturalmente e sociologicamente esaltante: quando le donne segnano una rete ti urlano in faccia, se ne sbattono se stanno avanti di sette reti e le avversarie sono in ginocchio fragili e impacciate, continuano a cercare di gonfiare la rete con un’ostinazione tipicamente femminile. Per noi maschiacci la palla che si insacca è una sorta di coito, per questo quando segniamo la settima rete a malapena ci congratuliamo, loro, le donne, invece, a ogni rete esultano come se avessero figliato. Ecco, se per noi è seduzione maschia che diventa routine, per loro diventa la prosecuzione della specie. Diventa vitale. 
E questo, consentitemelo, è bellissimo.




Storie di scrittori, banalità e puttane in carriera

Quando sei affamato di vita ti fai male. Va peggio se sei anche assetato di lettura. Se poi hai fame e sete di scrittura sei sulla via della maledizione. Mi spiego. Su Repubblica compare un articolo di Kate McKean, un’agente letteraria mica da poco, di quelle che decidono vita morte e miracoli dei futuri scrittori, non in Agro Pontino o nella compassata Bassa, ma nel mondo. L’articolo era illuminante. Ti sono successe cose straordinarie da raccontare? Bene, allora perché non scrivi un libro? Beh, l’agente globettrotter non te le manda mica a dire: se hai una storia da raccontare non è mica detto che tu possa diventare uno scrittore. Ancora, e questo lo aggiungo io: se pubblichi un libro mica è detto che sei uno scrittore, anche perché oggi si edita tanto ciarpame, con case editrici che dietro il danaro dànno vita a percolati d’inchiostro che era meglio che finissero direttamente in discarica. In verità, fino a qualche anno fa ero convinto che per pubblicare un libro era necessario avere qualcosa da dire. Beh, no, non è proprio così, abbracciando il McKean-pensiero: magari la storia va anche scalettata, magari i personaggi invece che di carta dovrebbero essere di carne e passione, magari l’anima dovrebbe abbracciare ogni parola, ogni passo, ogni scena, ogni dialogo, rifuggendo le banalità, riscattando i termini con i sinonimi meno arcaici e barocchi (quindi con studio e sacrificio).
Certo, idea trama spazio tempo cast sono basilari, poi c’è anche lo stile, che è frutto del nostro personale background, delle esperienze macerate nel cuore e nella testa, della nostra continua formazione e voglia di cultura, del nostro essere affamati e sognatori oltre gli scogli delle colonne d’Ercole. Insomma, tornando alla Kate McKean non è che tutti i lettori sono propensi a sborsare banconote e acquistare il nostro libro né recarsi in biblioteca per richiederlo, anche perché la signora sottolinea a chiare lettere che l’editoria è un’industria non votata alla meritocrazia ma che vende al dettaglio; è vero che scrivere è una forma d’arte ma è altrettanto veritiero che poi subentra la volgarità del commercio col do ut des.
Certo, poi ci balena Charles Bukowski con il suo manifesto sulla scrittura, sublimata dalla poesia ‘E così vorresti fare lo scrittore’: se non ti esplode dentro, se non cerca di fuoriuscire dalle viscere, se non sei sicuro che esca come un ruggito, lascia perdere, non sei ancora pronto.
Certo, poi c’è chi crede che scrivere sia sinonimo di pubblicare un romanzetto scritto nel giro di sessanta giorni, immaginando che quell’opera vomitata esercitando alla fine il mestiere più antico del mondo (sì, anche nell’acculturato campo della narrativa si va a letto con l’editore di turno o con l’uomo di spettacolo famoso per cercare una sponda) apra le porte del paradiso letterario, mentre invece schiude il varco della mediocrità senza ritorno. Ve la ricordate una delle scene più belle de ‘La grande bellezza’? Siamo su un terrazzo romano e Jep Gambardella, il re dei mondani, una sola ma eccezionale opera all’attivo, demolisce Stefania, egocentrica scrittrice radical chic, amante più dei talami piuttosto che del lavoro dello scrittore, autentica narcisista che si smarrisce a elencare opere mai lette da nessuno. Ebbene, ha ragione la Kane, se non si è strutturati non si può scrivere un libro nemmeno se si possiede un’idea carina, ma ha ragione anche il vecchio Chinaski: se l’anima la vendi e non la coltivi, lascia stare. Fa’ altro. 


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