Et litterae apud hominem mors
Inevitabile.
Se dovessimo racchiudere il significato della morte in un solo aggettivo,
questo sarebbe di certo il più credibile, convincente e penetrante. Ogni uomo
si misura suo malgrado con questo concetto ed è conscio che la morte stessa
rappresenti il momento estremo di ogni vita ed esperienza umana. Ecco perché se
ne parla ripetutamente, talvolta ridendoci su e stemperando pressioni e paure
interiori, talvolta manifestando in toto il senso di angoscia che consegue al
solo suo pensiero.
Alla morte, che
colpisce ogni essere vivente, l’uomo tenta di dare forma, colore, spessore in
veste di entità e artista in grado di emozionarsi e, soprattutto, di interpretarla
a più livelli a seconda delle prospettive e dei punti di vista.
In questa breve riflessione,
ho voluto approfondire alcune delle molte interpretazioni dedicate al concetto
di “morte” concentrandomi, in particolare, sui grandi classici della
Letteratura latina e greca, da cui avrebbe in seguito attinto la maggior parte
dei poeti italiani tra i quali Dante, Petrarca, Foscolo, Manzoni e Leopardi,
senza dimenticare le vere e proprie correnti letterarie come il Romanticismo o
il Decadentismo.
Nella letteratura
latina, Seneca affronta eccezionalmente tale tema e riporta nei paragrafi 7-12
del De Providentia, una delle sue
opere più importanti, l’episodio del suicidio di Marco Porcio Catone. Egli
rappresentò l’esempio massimo e supremo di Constantia stoica, idealizzato e
quasi venerato nei circoli di opposizione aristocratica all’assolutismo
imperiale. In questo passo, Seneca ne descrive le principali caratteristiche
morali e la scena celeberrima della morte, attraverso un monologo “tragico” dal
pathos intenso e dalla grande accuratezza stilistica, in cui è lo stesso Catone
Uticense a parlare e a convincersi che la morte non ha alcun aspetto negativo.
Oramai prigioniero, sul punto di esser consegnato ai nemici, dopo l’esito voluto a causa della congiura orchestrata contro l’imperatore Nerone,
Catone, spada in mano, pronuncia queste parole, parlando di sé in terza
persona:
“Catone
ha una via per uscire: con la sua sola mano spianerà la strada per la libertà.
Quest’arma, pura e innocente persino rispetto a una guerra civile, produrrà
alla fine opere virtuose e nobili: darà a Catone la libertà che non poté dare
alla patria. Intraprendi, animo mio, il progetto a lungo meditato, strappati
alle umane vicende. Per Catone è tanto vergognoso chiedere ad altri la morte
quanto la vita. La morte, infatti, consacra coloro la cui fine è elogiata anche
da chi la teme.”
Seneca, poeta stoico,
narra l’episodio di Catone per esprimere un pensiero comune; in accordo con la
filosofia stoica, la morte non era per lui un male bensì, al contrario, un
mezzo e uno strumento di liberazione per restare incorrotto ed evitare di
essere umiliato. La morte è libertas e
permette la libertas, per cui deve
essere pensata costantemente senza timore, ma con cinismo e prontezza. Per lo
stesso Seneca, infatti, è saggio esclusivamente colui che si prepara per tempo
alla morte e può così congedarsi dalla vita senza rimpianti.
Una simile idea è
quella sostenuta da Orazio, autore che rappresenta un “medium” tra stoicismo ed
epicureismo e che, nelle Odi, afferma:
“Personalmente
non ho paura della morte: la ritengo un naturale corso degli eventi. Gli uomini
nascono per morire, a questa crudele legge della natura non possiamo (ancora)
trasgredire. Tutto sommato è anche giusto: l'uomo per natura non è mai
contento, quindi se fossimo immortali finiremmo per togliercela da soli la
vita. In ogni caso penso che lo scopo della vita non sia tanto morire... quanto
quello della ricerca della felicità, sia personale sia degli altri. Essere
ricordati, ecco forse l'unico scopo decente della vita. D'altronde l'uomo è un
essere che fa parte di questo ciclo naturale in cui siamo immersi e l'unico
privilegio (o sfortuna?) che ha è quello di avere la reale consapevolezza di
cosa succede in questa pazza realtà.”
Nella letteratura
greca, invece, il tema della morte è affrontato sin dai secoli avanti Cristo.
Esiste addirittura un Dio della morte, Thanatos, che vive in una continua
correlazione con Eros, il Dio dell’amore, secondo uno schema per il quale Amore
crea la vita e Morte la distrugge.
Thanatos, dunque, è sicuramente
qualcosa di negativo ma già in Omero, che ha semplicemente riportato per iscritto
nell’Iliade e nell’Odissea l’insieme delle tradizioni e delle
conoscenze del mondo greco (affiancandole ai racconti epici della guerra e del
viaggio), la morte assume più significati, tra l’altro in collisione tra di
loro.
Se pensiamo, ad
esempio, all’Iliade, e ai vari episodi di guerra che la caratterizzano, la
morte ha molteplici valenze. È la causa per la quale Achille torna in battaglia
più agguerrito che mai per vendicare l’uccisione di suo cugino Patroclo. È
paura, terrore, disperazione, quando si pensa all’episodio in cui Ettore,
chiamato alle armi dal suo più acerrimo rivale, è colto da improvvisa smania ed
è costretto a fuggire, anche se per poco. Ed è poi lo stesso Achille ad impersonificare
la Morte che dapprima allarma Ettore:
“Come
lo vide, Ettore fu preso dal tremito e non poté più resistere: / si lasciò
indietro le porte e si mise in fuga.”
(…)
“La morte lo avvolse, / l’anima lasciò le
membra e volò nell’Ade, / piangendo il suo destino, lasciando la forza e la
giovinezza.”
Grandissima importanza,
sempre nel contesto dei poemi omerici, assumono le reazioni delle donne greche,
di solito caratterizzate da poca determinazione e da grande fragilità emotiva.
Si pensi ad Andromaca, moglie di Ettore, che nutre un sentimento di paura e di
angoscia nel momento in cui è resa consapevole del fatto che il marito debba
sfidare il grande Achille e che, di certo, la lascerà sola a occuparsi del
figlio appena nato. Qui il concetto di morte ha connotazione esclusivamente
negativa, perché rappresenta soprattutto sentimenti come sofferenza, dolore e
paura per quello che potrebbe riservare il futuro. Un futuro, quello del mondo
greco dell’antichità, che è caratterizzato solo ed esclusivamente dalla volontà
degli dei che banchettano nell’Olimpo, e non da quella degli uomini:
“il tuo valor ti
perderà: nessuna
pietà del figlio né di me tu senti,
crudel, di me che vedova infelice
rimarrommi tra poco, perché tutti
di conserto gli Achei contro te solo
si scaglieranno a trucidarti intesi.”
In epoche relativamente
più recenti, altri poeti greci trattano il tema della morte.
Mimnermo, poeta
elegiaco greco del II secolo avanti Cristo, rifacendosi a tali versi
dell’Iliade omerica:
“Tidide possente, perché
mi chiedi la discendenza?
Quale delle foglie la
stirpe,
tale anche quella degli
uomini.
Le foglie, alcune il
vento le getta per terra, altre la selva
fiorente genera, e
sopraggiunge il tempo della primavera:
così una stirpe di
uomini viene al mondo ed un'altra scompare.”
Così reinterpreta e scrive:
“Che vita, che gioia
senza Afrodite aurea?
Potessi morire,
quando queste cose non mi stessero più a cuore,
i segreti amorosi,
i dolci doni ed il letto,
soli fiori di
giovinezza
bramati da uomini
e donne. Ma dopo che è giunta
la dolorosa
vecchiaia, che rende l'uomo brutto e maligno,
sempre gli
consumano il cuore pensieri brutti
senza provare
gioia nel guardare i raggi del sole,
ma è odiato dai
ragazzi e disprezzato dalle donne.
Così dolorosa fece
un dio la vecchiaia”.
La morte è qui interpretata come il normale superamento della vita, come la
parte conclusiva di un ciclo vitale naturale, qualcosa che non può diverso da
così.
Ma c’è di più: la morte è addirittura migliore della vecchiaia perché, a
differenza di quest’ultima, è la cessazione delle sofferenze e dei dolori sia fisici
che interiori.
Ma il genere classico in cui la morte è protagonista indiscussa è
sicuramente la tragedia greca, in cui essa è qualcosa di triste e turpe, ed è
di conseguenza strettamente legata a disperazione, orrore. Aiace è brutale
quando cerca e trova la morte suicidandosi con la sua stessa spada. E come
dimenticare Antigone? L’eroina che, disperata per la morte del fratello
Polinice, rimasto addirittura insepolto, arriva a tanto malessere interiore da
infrangere le leggi della propria città e seppellire l’amato familiare? In
questa tragedia Sofoclea, la morte di Polinice non è descritta: ci si concentra
maggiormente sulla reazione della sorella, che perde un pezzo della sua vita, e
sulla successiva morte di Antigone stessa. Qui la Morte assume tratti violenti.
È ribellione, ma non libertà. È solo in parte Catoniana perché rappresenta
solamente la conseguenza naturale di un’azione illegale, dettata dalla disperazione,
dalla sfiducia verso il mondo e da una infinita tristezza.
Questa piccola selezione di testi classici aiuta, dunque, a capire quanto
il concetto di “morte”, pur avendo sempre e solo lo stesso significato
intrinseco, può essere interpretato in vari modi e può dar vita a molteplici
sentimenti, spesso contrapposti.
scritto da Francesco Botti
pietà del figlio né di me tu senti,
crudel, di me che vedova infelice
rimarrommi tra poco, perché tutti
di conserto gli Achei contro te solo
si scaglieranno a trucidarti intesi.”
“Aetèrne rèrum cònditor”.
Da
un’espressione di Sant’Ambrogio possiamo facilmente estrapolare quello che Dio
rappresenta fin dall’età letteraria latina Tardoantica ovvero il soggetto di
qualunque opera religiosa, motivo d’ispirazione, essere perfetto e illuminante.
Collegandoci
alla figura del nostro Aurelius Augustinus Ipponiensis, o più semplicemente
Sant’Agostino, ci concentreremo brevemente su coloro che tra la seconda metà
del IV secolo a.C. e i primi anni del V operarono a livello religioso, filosofico
e letterario contribuendo a rendere ancora più variegato il panorama letterario
latino.
In
questi secoli, la dottrina cristiana fu derisa e attaccata dagli intellettuali
contemporanei, soprattutto greci, che non ne comprendevano le motivazioni. Anche
all’interno del Cristianesimo stesso, si formarono movimenti “eretici” che si distanziavano
dalla tradizione in special modo sulla questione della natura umano-divina di
Cristo e minavano l’unità e la stabilità di una Chiesa giovane e ancora molto
fragile, ma già accusata e perseguitata.
È
in questo clima, di fronte alle accuse dei contemporanei, che nasce l’esigenza
di difendere il proprio credo e di mettere per iscritto e “poetare” gli aspetti
distintivi e irrinunciabili del pensiero cristiano da parte di questi scrittori
i quali, tuttora, sono considerati i veri e propri Padri della Chiesa. Questi, attraverso
opere e pensieri originali, furono in grado di porre le basi dottrinarie della
Chiesa Cattolica, a quel tempo sì diffusa ma pur sempre in concorrenza con
minoranze pagane superstiti, riuscendo a far sopravvivere la cultura greca
vicino alla tradizione cristiana.
Oltre ad Agostino, mi
preme sottolineare l’opera di San Girolamo e di Sant’Ambrogio i cui scritti,
che formano la cosiddetta Letteratura Patristica Occidentale, sintetizzano la
dottrina della Bibbia e in particolare dei Vangeli, fornendo un compendio
omogeneo di insegnamenti da trasmettere alle generazioni cristiane successive.
Geronimo, Ambrogio, Agostino e Atanasio |
Ma c’è di più.
Ripercorrendo il contesto storico e la produzione letteraria, è doveroso citare
anche altre tendenze scrittorie, tutte accomunate e caratterizzate dall’uso
della Koinè, la lingua utilizzata per la poesia che, a partire dall’epoca di
Carlo Magno, si era fatta largo nei regni ellenistici e aveva sostituito gli
antichi dialetti greci locali. Una lingua “comune”, semplice, formale e
grammaticalmente codificata per facilitare scrittura e comprensione.
Scrisse
in questa epoca Eliodoro, autore di vari romanzi cristiani, agiografici, che
fondevano eventi del Nuovo Testamento ed elementi fantasiosi e avevano come
protagonisti dei santi, impegnati in viaggi missionari in paesi lontani, che
resistevano alle tentazioni e a qualsiasi tipo di elemento erotico. Eliodoro è
soprattutto creatore delle Etiopiche, romanzo alessandrino che racconta gli
amori della figlia del Re d’Etiopia Cariclea e del greco Teagene.
Per
quanto riguarda la letteratura erudita, è importantissima in questa epoca la
figura di Esichio di Alessandria, che realizza un imponente lessicografo della
lingua greca che contiene circa 50000 voci accompagnate da spiegazioni di
parole ed espressioni particolari. Senza poi dimenticare Quinto Smirneo e Nonno
di Panopoli, che reinventano l’epica scritta in lingua Koinè. L’uno scrive
poemetti mitici che non sono a noi pervenuti; l’altro è famosissimo per le sue
Dionisiache, poema epico che narra le avventure di Dioniso. Tale opera è divisa
in 48 canti e ricorda Omero, i tragici greci e i poeti ellenistici per stile,
struttura del discorso e aneddotica. Per dimostrare ulteriormente la “varietas”
tematica e di genere che caratterizza questo periodo, possiamo trovare degli
spunti interessanti anche interessandoci dell’oratoria, di tipo sacro, il cui
scopo principale è la diffusione della dottrina cattolica. Tra i retori più
importanti, anche in periodi di crisi, c’erano anche dei pagani come Libanio e
Temistio. La poesia vera e propria, invece, vede operare Nonno di Panopoli,
considerato l’ultimo poeta della letteratura ellenistica e, soprattutto, Paolo
Silenziano al quale sono attribuite diverse raccolte di epigrammi che trattano
argomenti erotici e che hanno come peculiarità proprie i concetti di “brevitas”
e “varietas”, stilistica e metrica.
Torniamo ai nostri Padri della Chiesa.
Dopo il periodo dell'Apologetica, che aveva visto gli scrittori cristiani
impegnati nella difesa della loro religione dalle tesi morali e filosofiche ad
essa contrarie, ai cristiani viene concessa la libertà di culto grazie all'Editto
di Milano.
Liberi.
I padri della Chiesa, pur consapevoli della sopravvivenza dei modelli
ereditati dalla cultura pagana, godono a questo punto della libertà di far
poesia, di evangelizzare la loro religione attraverso l’eleganza letteraria e
uno stile comune che li caratterizza: SUBLIME, elevato, che tratti tuttavia
contenuti “umili”. Quali? L’invocazione di Dio, ovviamente. Per non dimenticare
la Supplica, ovvero le particolari richieste dirette di volta in volta alla
divinità in cambio della devozione dimostrata dai fedeli. E la lode del Cristo, essenza della nostra
vita, esaltato così da Ambrogio nel “De Verginitate”:
“Cristo per noi è tutto. Se vuoi
curare le ferite, Egli è il medico. Se sei riarso dalla febbre, Egli è la
fontana. Se sei oppresso dal peccato, Egli è la santità. Se hai bisogno di
aiuto, Egli è la forza. Non ti seguiamo, Signore Gesù, ma tu chiamaci. Senza di
te nessuno potrà salire. Tu sei la via, la verità, la vita, il premio. Accogli
i tuoi, sei la via. Confermali, sei la verità. Verificali, sei la vita.”
Sant'Ambrogio |
Una considerazione mi pare doverosa farla anche
sul tipo di linguaggio: il latino utilizzato dagli scrittori patristici è
sicuramente diverso da quello classico, per via del periodo storico e delle
influenze provenienti dall’esterno, cioè dai popoli romano-barbarici che di lì
a poco avrebbero posto fine all’Impero Romano. Un latino semplice e scorrevole,
proprio di chi è interessato solamente a trasmettere pensieri. Un latino che
tende a insegnar concetti, dunque didascalico. Esso si impose rapidamente in
Occidente come lingua della filosofia e della teologia grazie al prestigio di
tali pensatori.
Tenendo conto delle infinite opere
dottrinarie, teologiche, epesegetiche e ascetiche, la domanda a cui ci preme
dare una risposta è la seguente: qual è l’obiettivo primario di questi scrittori,
oltre evangelizzare? La risposta è semplice ovvero proporre una morale cristiana
attraverso la poesia, cercare una distinzione tra “parola di Dio” e “traduzione
artistica”. Un punto di contatto, insomma, che cerchi di spiegare il
significato della religione e illuminare ciò che, ahimè, rimarrà
inevitabilmente oscuro.
Non a caso, “In sacris scripturis ipse ordo verborum mysterium est”, afferma
Girolamo (“Nelle sacre scritture persino l’ordine delle parole è un mistero.”)
Impossibilitati a comprendere la figura di
Dio, tali scrittori si propongono di affrontare con intensità diversi altri
compiti, alternativi ma non meno importanti, quali l’educazione e l’elevazione
morale dei fedeli e dei sacerdoti, oltre che l’esortazione all’ascesi: una
scelta difficile, quella di consacrare un’intera esistenza alla castità, ma che
è giustificata, anzi divinizzata, dall’esempio biblico della vergine Maria.
Proprio Ambrogio e Girolamo furono di Maria
teologi raffinati e cantori inesausti, anche secondo quanto affermò, non molti
anni fa, Papa Giovanni Paolo II. Ne offrirono un ritratto attento, affettuoso,
particolareggiato, tratteggiandone le virtù morali, la vita interiore,
l’assiduità al lavoro e alla preghiera.
Sempre Ambrogio, contemplandola nel giubilo
del Magnificat:
“Sia in ciascuno l’anima di Maria
a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio.”
scritto da Francesco Botti
Grandeeeeeee
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