mercoledì 23 gennaio 2019

E vissero tutti feriti e contenti (Recensione)


Titolo: E vissero tutti feriti e contenti
Autore: EttoreZanca
Edito da IanieriEdizioni




“Questo non è un circo come gli altri. Qui troverà equilibristi di vita, funamboli del fine mese, domatori di necessità e seduttori di virtù. Troverà chi si è fatto sparare dal cannone della guerra sperando in un mondo migliore travisato da barcone infimo. Ballerine di grazia corrotta dalle rughe di troppi uomini bugiardi. Le funi sono tese, tutti senza rete.”

È così, è da qui che inizia il viaggio all’interno di un circo che altro non è che un’arena di vite, in cui i personaggi sono chiamati a interpretare se stessi. La voce narrante ci accoglie sin dai primi passi, è la guida entro un percorso che, per quanto io tenti di raccontare in maniera cronologica, ordinata, tenderà a curvarsi, a insinuarsi con circonvoluzioni che fanno cappio attorno al fiato.

“Incastrato tra due fiumi.
Bonacina Sebastiano, di fianco al Po, davanti le macchine che lo vedono solo perché devono pagare il biglietto del casello. Il fiume liquido contro quello umano.
I fiumi che odia. (…) Sebastiano aveva scelto non scegliendo. Militante in un posto da cui se ne sarebbe andato, latitante di tutti i suoi desideri, ricercato speciale dai sorrisi che non mostrava mai. (…) Che poi forse Sebastiano si abitua. (…) Non lo fa incancrinire sul rimuginare tra quello che vorrebbe lui e quello che non c’è.
Quello che si portano via tutti quelli che attraversano la sua sbarra anno dopo anno. Per andar via. Che lui guarda in lontananza prendere il biglietto.
Ma negli ultimi anni, da quando c’è quell’ospedale, Sebastiano ha rimischiato le carte dell’insoddisfazione. Perché adesso non guarda più solo chi va via. Ma anche chi arriva. Per andare in quell’ospedale e farsi curare. E lui sente qualcosa nel vedere questa processione, pagano per un lasciapassare, una sbarra che si apre, andando verso qualcosa che rischia di chiudersi per sempre.”

Sebastiano è un uomo come tanti, tra quelli che per non dirsi troppo insoddisfatti della propria vita si reinventano nel ruolo di sorvegliante di vite altrui. E ci credono in quello che fanno, nel ruolo che si sono auto imposti. Non hanno alternative.


Nel racconto intitolato “Entrino le belve”, invece, si assiste al ribaltamento delle aspettative: per belve sono intesi quegli individui che si avvicinano ad altri individui col solo intento di fregare, di sottrarre, castrare; individui, questi, che restano senza bersagli a cui sparare poiché trovano nell’altro non l’accondiscendenza alla violenza, non la resa o la rabbia, ma l’indulgenza, la comprensione, l’aiuto.


In “Mastro Pregiudizio e Signora Presunzione” ho intercettato uno spaccato di vita caratterizzato dal bisogno di dare un volto e una voce alla colpa del genere umano, inteso come "altri" distanti da sé, una colpa che genera un'etichetta, che qualifica negativamente, che è sempre altrui, e mai propria:

“Benvenuti a Label Town.
La terra dove bisogna avere un’etichetta. In cui la paura si combatte mettendo muri. In cui non aver cura equivale a essere duri.
Benvenuti a Label Town, dove hai una faccia con un post-it appiccicato, dove niente si dice se non viene urlato, e se hai il coraggio di un’idea diversa, nel sottobosco di una maldicenza, la tua dignità è persa. (…)
Benvenuti a Label Town, la terra delle etichette, le sfuggi, le schifi, ma non hai speranze. Tutte le frasi ti faranno a fette. (…)
In fondo Mastro Pregiudizio faceva un servizio sociale. Trovava la carne da sbranare per tutti e li saziava.”


E quando, a un certo punto, arriva il momento di fare i conti con le emozioni, di distinguerle o di controllarle, allora la faccenda si complica, di molto:

“Per chi ha voglia di partire dimenticando tutto, la stazione è un concentrato letale di storie al rallentatore.
I posti che accolgono i mezzi di trasporto ne riflettono la velocità e chi ha voglia di cavalcarla. (…)
In stazione l’odore del treno si mischia al piscio.
Le storie hanno un odore. Vanno più piano, sono più lente, ma sudano di più, vivono di più.
Colpiscono persino di più perché hanno più tempo per mirare. (…)
Io mi innamoro ogni giorno, ogni due ore vivo storie di passione, ogni volta che incontro una donna con lo sguardo velato da malinconia vorrei essere l’uomo che la consola, (…) Vorrei essere quello che offre la birra giusta al momento giusto all’amico che sta per scegliere se amare un altro minuto della vita che lo fotte o ammazzarsi lì, seduta stante. (…)
Sarei curioso di sapere se riuscireste  a mettervi a tavolino a scrivere la storia di qualcuno che sentite vicino di cuore.
Ma non le sue abitudini.
Arrivare al suo scrigno. All’inconfessabile. (…)
Rispondo io per voi. Non ne siete capaci. Non siete capaci di scrivere nemmeno la vostra di storia. Non conoscete neppure le vostre emozioni. Ma non per vergogna.
Le emozioni sono scomode, fanno agitare sulle sedie.
Le emozioni sono ragadi dell’anima, emorroidi dell’esistenza. Fastidi passabili che si classificano quasi come peccati di gioventù.”


È un circo, questo, in cui compaiono i mostri, il domatore di ingenui, i lupi, i giocolieri dei sogni, i clown, i cacciatori di paura:

“Abbiamo bisogno di un fantasma.
Un fantasma che non ci somigli. Perché non somigliarsi fa paura, sì, ma fa etichettare. Tu non sei come me. (grassetto mio)
La diversità è una invenzione di chi non è daltonico. Le etichette appartengono a chi non sa inventare un mondo senza confini. Il girotondo ci confina fin da bambini, ci confina e ci conforta.
Non avrai le mie qualità e io mi sentirò meglio a non saperti come me perché finalmente so a chi dare la colpa delle mie paure. (grassetto mio) Signor mio, non sa quanta gente fa questo ragionamento, non sapendo quanti ruggiti di savana ci sono in chi sorride a un semaforo.
Ora proviamo a farveli vedere, nella bellezza delle terre dove un leone non muore mai, ma si addormenta soltanto.”




Ettore Zanca, con questo testo che rasenta la fiaba, la poesia, ci porta in un “circo di vita quotidiana” in cui i personaggi vengono “mostrati” da una voce guida, che potrei supporre sia la voce della coscienza di ciascuno di noi. 
La prosa suggestiva, evocativa, incornicia racconti densi di concreta consapevolezza, una fotografia del genere umano, dei vizi, dei limiti, delle risorse, della cecità di fronte ad argomenti che ci fanno “agitare sulle sedie”.

Un libro che consiglio ai nuovi e ai vecchi sognatori e anche a chi, di un po’ di fiaba, ne avrebbe bisogno. 

venerdì 11 gennaio 2019

Il peso minimo della bellezza (Recensione)


Titolo: Il peso minimo della bellezza
Autore: Azzurra de Paola
Edito da LiberAria Editrice









“A sette anni non lo sai perché odi i baci di tua madre. Ti senti in colpa, ti dispiace, vorresti proprio farla contenta e ti mortifichi. Passi cinque ore seduto al banco a pensare quanto tu sia cattivo. (…) E allora vivi da cattivo. Ti trasformi nell’idea che hai di te stesso, come se al mondo non dovessi meritare più altri baci perché hai rifiutato quelli di tua madre e quindi la tua fetta di felicità l’hai già avuta. Ogni cosa che fai credi di farla perché sei cattivo o credi che se fossi buono ti riuscirebbe meglio. (…) Perché a sette anni non hai un metro di paragone. Non sai che esistono altre famiglie. Cioè, lo sai ma è come se non lo sapessi. (…) Pensi con la testa di un bambino di sette anni cattivo che non vuole essere baciato da sua madre. E con il tempo diventi (grassetto mio) quel bambino, quello cattivo. Anche se non lo sei. Perciò ti comporti male, sei arrabbiato, rumoroso, dai fastidio in modo che tutti possano riconoscerti lo status di bambino cattivo e che tu possa scusarti per questo.
Prendere le botte. Espiare.”

È un viaggio questo che tocca la punta di un iceberg doloroso, nervi tesi e scoperti, corde dagli echi striduli. Il rapporto tra madre e figlio indagato in modo viscerale, passando attraverso delle fasi entro le quali il racconto viene incastonato.

La prima fase è quella della Negazione, in cui prendono piede le figure materne assenti, le madri che non sono mai cresciute, quelle mosse dagli isterismi della propria inadeguatezza e quelle che, in un figlio, cercano accudimento:

Avevo un anno, più o meno, quando stavi seduta a guardare dalla finestra e mi tenevi stretto a te cantandomi la ninnananna che tua madre cantava a te e sua madre a lei. Mi tenevi stretto e dicevi: siamo io e te. Siamo solo noi.
E credo proprio che tu avessi un gran bisogno di me molto più di quanto non fosse il contrario. Questo credo.”


La seconda fase riguarda la Rabbia che, come nella maggior parte dei casi, sfocia nell’aggressività, un sentimento feroce che trova nella bocca un luogo di accanimento; la bocca che morde, strappa, mastica, che lascia che ci si sazi di qualcosa che viene dal dolore e che, quindi, non regala nutrimento:

“E lui, il Dottore, che ti osservava solo un attimo mentre tu guardavi altrove e ti prendeva la mano. La mano rifiutata, quella che io non ho voluto, quella che contiene lo spazio vuoto della mia. Ecco, lì ci si infila la sua.
E tu la stringi.
E tu dici grazie (grassetto mio) a bassa voce.
E tu pensi: meno male che ci sei.
E io vorrei prendere a mangiarmi le dita e le mani fino ai gomiti e poi continuare fino alle spalle, inghiottirmi intero e vivo. Mangiarmi pezzo per pezzo. Infilarmi dieci dita in gola, masticarle e mandarle giù per poi continuare con i polsi. Questo vorrei fare mentre lui ti tiene la mano. Di nuovo, una mano sottratta con l’inganno. Solo perché è la mano che io non ho voluto. Un altro mangiatore di avanzi. “

Nella fase III ci si imbatte nel Patteggiamento, che altro non è che una negoziazione con la propria coscienza nel maldestro tentativo di applicare manovre apprese di espiazione:

“Ho imparato da te che ogni colpa va espiata. Che bisogna pagare il più possibile per non essere perseguitati dai propri errori. Che talvolta il solo modo di chiedere perdono è rimanere soli. È la privazione. (…)
Quando tornai a casa, passai tutte le notti con il rosario in mano a cercare di rimediare ai miei errori. A cercare di trovare una soluzione che andasse bene per me. Per ricominciare a dormire. E non c’era modo per aiutarmi. Con le stesse preghiere che avevo sentito dire a te, nelle lunghe notti di disperazione e di inferno.”

La fase IV, ovvero la Depressione, palesa quanto sia complicato penetrare la diade madre/figlio senza che vengano smossi gli equilibri, sebbene precari, su cui poggia:

“Improvvisamente è tutto chiaro. Scappo dalla tua mano e corro in camera mia. Sbatto la porta. (…) Niente di quello che c’è fuori può servirmi ora che sono al sicuro qui dentro. Tra i miei giocattoli conosciuti. Vicino al mio letto fidato. Davanti al mio armadio sincero. Non voglio niente del tuo mondo di bugie, profumi che non riconosco, pareti di casa che approfittano della mia assenza. Tieniti tutto. Mangia i biscotti. Guardati la televisione.
Stai da sola.
Questa è la mia punizione.
Lasciarti dietro a una porta chiusa senza risponderti.
(…)
Questa è la mia punizione per avermi tradito, mentito, ingannato. Per avermi mandato a scuola proprio il giorno che veniva lui. Riconosco il suo odore di guanti di lattice e disinfettante. (…) Riconosco la luce che hanno i tuoi occhi dopo che li ha guardati. Sento come cambia il suono della tua voce dopo che lui l’ha ascoltata. I segni inconfondibili del suo passaggio. Camuffati male chiudendo la porta della stanza in cui siete stati insieme. Per non farmi vedere, per non farmi impicciare. Per tenermi all’oscuro. Per fare le cose senza di me.”

E poi La morte e il morire, La fine. L’epilogo del dolore, il cerchio che si chiude come un laccio su tutte le parole rese orfane di suono, l’inconsolabile distanza e il silenzio.





Credo che in questo libro sia condensato un lutto che va al di là della perdita in sé, è qualcosa che si riverbera oltre, nella desolazione del non aver mai avuto, ottenuto, meritato. Un percorso faticoso esplorato camminando i passi incerti di una madre poco consapevole del proprio agire inadatto, e un figlio sul quale si adombra una figura materna eccessivamente accudente, frustrante, ambivalente. Una madre non "sufficientemente buona", l’inconsapevolezza, gli scarti emotivi, la ridotta comunicazione che sfocia con impeto nell’incomprensione più delirante.
Una scrittura decisa quella di Azzurra de Paola, direi essenziale, a tratti feroce.
Un libro nel quale credo sia inevitabile intercettare un po’ di sé.
E che sia in veste di genitore o di figlio, cambia davvero poco.