Titolo: E vissero
tutti feriti e contenti
Autore: EttoreZanca
Edito da IanieriEdizioni
“Questo non
è un circo come gli altri. Qui troverà equilibristi di vita, funamboli del fine
mese, domatori di necessità e seduttori di virtù. Troverà chi si è fatto
sparare dal cannone della guerra sperando in un mondo migliore travisato da
barcone infimo. Ballerine di grazia corrotta dalle rughe di troppi uomini
bugiardi. Le funi sono tese, tutti senza rete.”
È così, è da qui
che inizia il viaggio all’interno di un circo che altro non è che un’arena di
vite, in cui i personaggi sono chiamati a interpretare se stessi. La voce
narrante ci accoglie sin dai primi passi, è la guida entro un percorso
che, per quanto io tenti di raccontare in maniera cronologica, ordinata, tenderà
a curvarsi, a insinuarsi con circonvoluzioni che fanno cappio attorno al fiato.
“Incastrato tra due fiumi.
Bonacina Sebastiano, di fianco al Po, davanti le macchine
che lo vedono solo perché devono pagare il biglietto del casello. Il fiume
liquido contro quello umano.
I fiumi che odia. (…) Sebastiano aveva scelto non
scegliendo. Militante in un posto da cui se ne sarebbe andato, latitante di
tutti i suoi desideri, ricercato speciale dai sorrisi che non mostrava mai. (…)
Che poi forse Sebastiano si abitua. (…) Non lo fa incancrinire sul rimuginare
tra quello che vorrebbe lui e quello che non c’è.
Quello che si portano via tutti quelli che attraversano
la sua sbarra anno dopo anno. Per andar via. Che lui guarda in lontananza
prendere il biglietto.
Ma negli ultimi anni, da quando c’è quell’ospedale,
Sebastiano ha rimischiato le carte dell’insoddisfazione. Perché adesso non
guarda più solo chi va via. Ma anche chi arriva. Per andare in quell’ospedale e
farsi curare. E lui sente qualcosa nel vedere questa processione, pagano per un
lasciapassare, una sbarra che si apre, andando verso qualcosa che rischia di chiudersi
per sempre.”
Sebastiano è un
uomo come tanti, tra quelli che per non dirsi troppo insoddisfatti della
propria vita si reinventano nel ruolo di sorvegliante di vite altrui. E ci credono in quello che fanno, nel ruolo che si sono auto imposti. Non hanno alternative.
Nel racconto intitolato “Entrino le
belve”, invece, si assiste al ribaltamento delle aspettative: per belve sono intesi quegli individui che si avvicinano ad altri individui col solo intento di fregare, di sottrarre, castrare; individui, questi, che restano senza bersagli a cui sparare poiché trovano nell’altro non l’accondiscendenza alla violenza, non la
resa o la rabbia, ma l’indulgenza, la comprensione, l’aiuto.
In “Mastro
Pregiudizio e Signora Presunzione” ho intercettato uno spaccato di vita
caratterizzato dal bisogno di dare un volto e una voce alla colpa del genere umano, inteso come "altri" distanti da sé, una colpa che genera un'etichetta, che qualifica negativamente, che è sempre altrui, e mai propria:
“Benvenuti a Label Town.
La terra dove bisogna avere un’etichetta. In cui la
paura si combatte mettendo muri. In cui non aver cura equivale a essere duri.
Benvenuti a Label Town, dove hai una faccia con un
post-it appiccicato, dove niente si dice se non viene urlato, e se hai il
coraggio di un’idea diversa, nel sottobosco di una maldicenza, la tua dignità è
persa. (…)
Benvenuti a Label Town, la terra delle etichette, le
sfuggi, le schifi, ma non hai speranze. Tutte le frasi ti faranno a fette. (…)
In fondo Mastro Pregiudizio faceva un servizio
sociale. Trovava la carne da sbranare per tutti e li saziava.”
E quando, a un certo punto, arriva il momento di fare i conti con le emozioni, di distinguerle o di controllarle,
allora la faccenda si complica, di molto:
“Per chi ha voglia di partire dimenticando tutto, la
stazione è un concentrato letale di storie al rallentatore.
I posti che accolgono i mezzi di trasporto ne
riflettono la velocità e chi ha voglia di cavalcarla. (…)
In stazione l’odore del treno si mischia al piscio.
Le storie hanno un odore. Vanno più piano, sono più
lente, ma sudano di più, vivono di più.
Colpiscono persino di più perché hanno più tempo per
mirare. (…)
Io mi innamoro ogni giorno, ogni due ore vivo storie
di passione, ogni volta che incontro una donna con lo sguardo velato da
malinconia vorrei essere l’uomo che la consola, (…) Vorrei essere quello che
offre la birra giusta al momento giusto all’amico che sta per scegliere se
amare un altro minuto della vita che lo fotte o ammazzarsi lì, seduta stante. (…)
Sarei curioso di sapere se riuscireste a mettervi a tavolino a scrivere la storia di
qualcuno che sentite vicino di cuore.
Ma non le sue abitudini.
Arrivare al suo scrigno. All’inconfessabile. (…)
Rispondo io per voi. Non ne siete capaci. Non siete
capaci di scrivere nemmeno la vostra di storia. Non conoscete neppure le vostre
emozioni. Ma non per vergogna.
Le emozioni sono scomode, fanno agitare sulle sedie.
Le emozioni sono ragadi dell’anima, emorroidi dell’esistenza.
Fastidi passabili che si classificano quasi come peccati di gioventù.”
È un circo,
questo, in cui compaiono i mostri, il domatore di ingenui, i lupi, i giocolieri
dei sogni, i clown, i cacciatori di paura:
“Abbiamo bisogno di un fantasma.
Un fantasma che non ci somigli. Perché non
somigliarsi fa paura, sì, ma fa etichettare. Tu non sei come me. (grassetto mio)
La diversità è una invenzione di chi non è
daltonico. Le etichette appartengono a chi non sa inventare un mondo senza
confini. Il girotondo ci confina fin da bambini, ci confina e ci conforta.
Non avrai le mie
qualità e io mi sentirò meglio a non saperti come me perché finalmente so a chi
dare la colpa delle mie paure. (grassetto mio) Signor mio, non sa quanta gente fa questo ragionamento, non sapendo
quanti ruggiti di savana ci sono in chi sorride a un semaforo.
Ora proviamo a farveli vedere, nella bellezza delle
terre dove un leone non muore mai, ma si addormenta soltanto.”
Ettore Zanca, con
questo testo che rasenta la fiaba, la poesia, ci porta in un “circo di vita
quotidiana” in cui i personaggi vengono “mostrati” da una voce guida, che
potrei supporre sia la voce della coscienza di ciascuno di noi.
La prosa
suggestiva, evocativa, incornicia racconti densi di concreta consapevolezza,
una fotografia del genere umano, dei vizi, dei limiti, delle risorse, della
cecità di fronte ad argomenti che ci fanno “agitare sulle sedie”.
Un libro che
consiglio ai nuovi e ai vecchi sognatori e anche a chi, di un po’ di fiaba, ne
avrebbe bisogno.
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