Titolo:
Il peso minimo della bellezza
Autore: Azzurra
de Paola
Edito da
LiberAria Editrice
“A sette anni non lo
sai perché odi i baci di tua madre. Ti senti in colpa, ti dispiace, vorresti
proprio farla contenta e ti mortifichi. Passi cinque ore seduto al banco a
pensare quanto tu sia cattivo. (…) E allora vivi da cattivo. Ti trasformi
nell’idea che hai di te stesso, come se al mondo non dovessi meritare più altri
baci perché hai rifiutato quelli di tua madre e quindi la tua fetta di felicità
l’hai già avuta. Ogni cosa che fai credi di farla perché sei cattivo o credi
che se fossi buono ti riuscirebbe meglio. (…) Perché a sette anni non hai un
metro di paragone. Non sai che esistono altre famiglie. Cioè, lo sai ma è come
se non lo sapessi. (…) Pensi con la testa di un bambino di sette anni cattivo
che non vuole essere baciato da sua madre. E con il tempo diventi (grassetto mio) quel bambino, quello cattivo. Anche se non lo sei. Perciò ti comporti
male, sei arrabbiato, rumoroso, dai fastidio in modo che tutti possano
riconoscerti lo status di bambino cattivo e che tu possa scusarti per questo.
Prendere le botte.
Espiare.”
È
un viaggio questo che tocca la punta di un iceberg doloroso, nervi tesi e
scoperti, corde dagli echi striduli. Il rapporto tra madre e figlio indagato in
modo viscerale, passando attraverso delle fasi entro le quali il racconto viene
incastonato.
La prima fase è quella della Negazione, in cui
prendono piede le figure materne assenti, le madri che non sono mai cresciute,
quelle mosse dagli isterismi della propria inadeguatezza e quelle che, in un
figlio, cercano accudimento:
“Avevo un anno, più o meno, quando stavi
seduta a guardare dalla finestra e mi tenevi stretto a te cantandomi la
ninnananna che tua madre cantava a te e sua madre a lei. Mi tenevi stretto e
dicevi: siamo io e te. Siamo solo noi.
E credo proprio che tu
avessi un gran bisogno di me molto più di quanto non fosse il contrario. Questo
credo.”
La seconda fase
riguarda la Rabbia che, come nella
maggior parte dei casi, sfocia nell’aggressività, un sentimento feroce che
trova nella bocca un luogo di accanimento; la bocca che morde, strappa,
mastica, che lascia che ci si sazi di qualcosa che viene dal dolore e che,
quindi, non regala nutrimento:
“E lui, il Dottore, che
ti osservava solo un attimo mentre tu guardavi altrove e ti prendeva la mano. La
mano rifiutata, quella che io non ho voluto, quella che contiene lo spazio
vuoto della mia. Ecco, lì ci si infila la sua.
E
tu la stringi.
E tu dici grazie (grassetto
mio) a bassa voce.
E tu pensi: meno male
che ci sei.
E io vorrei prendere a
mangiarmi le dita e le mani fino ai gomiti e poi continuare fino alle spalle,
inghiottirmi intero e vivo. Mangiarmi pezzo per pezzo. Infilarmi dieci dita in
gola, masticarle e mandarle giù per poi continuare con i polsi. Questo vorrei
fare mentre lui ti tiene la mano. Di nuovo, una mano sottratta con l’inganno. Solo
perché è la mano che io non ho voluto. Un altro mangiatore di avanzi. “
Nella
fase III ci si imbatte nel Patteggiamento,
che altro non è che una negoziazione con la propria coscienza nel maldestro tentativo di applicare manovre apprese
di espiazione:
“Ho imparato da te che
ogni colpa va espiata. Che bisogna pagare il più possibile per non essere
perseguitati dai propri errori. Che talvolta il solo modo di chiedere perdono è
rimanere soli. È la privazione. (…)
Quando tornai a casa,
passai tutte le notti con il rosario in mano a cercare di rimediare ai miei
errori. A cercare di trovare una soluzione che andasse bene per me. Per ricominciare
a dormire. E non c’era modo per aiutarmi. Con le stesse preghiere che avevo
sentito dire a te, nelle lunghe notti di disperazione e di inferno.”
La
fase IV, ovvero la Depressione, palesa
quanto sia complicato penetrare la diade madre/figlio senza che vengano smossi
gli equilibri, sebbene precari, su cui poggia:
“Improvvisamente è
tutto chiaro. Scappo dalla tua mano e corro in camera mia. Sbatto la porta. (…)
Niente di quello che c’è fuori può servirmi ora che sono al sicuro qui dentro.
Tra i miei giocattoli conosciuti. Vicino al mio letto fidato. Davanti al mio
armadio sincero. Non voglio niente del tuo mondo di bugie, profumi che non
riconosco, pareti di casa che approfittano della mia assenza. Tieniti tutto. Mangia
i biscotti. Guardati la televisione.
Stai da sola.
Questa è la mia
punizione.
Lasciarti dietro a una
porta chiusa senza risponderti.
(…)
Questa è la mia
punizione per avermi tradito, mentito, ingannato. Per avermi mandato a scuola
proprio il giorno che veniva lui. Riconosco il suo odore di guanti di lattice e
disinfettante. (…) Riconosco la luce che hanno i tuoi occhi dopo che li ha
guardati. Sento come cambia il suono della tua voce dopo che lui l’ha
ascoltata. I segni inconfondibili del suo passaggio. Camuffati male chiudendo la
porta della stanza in cui siete stati insieme. Per non farmi vedere, per non
farmi impicciare. Per tenermi all’oscuro. Per fare le cose senza di me.”
E
poi La morte e il morire, La fine. L’epilogo del dolore, il cerchio che si
chiude come un laccio su tutte le parole rese orfane di suono, l’inconsolabile
distanza e il silenzio.
Credo
che in questo libro sia condensato un lutto che va al di là della perdita in sé, è qualcosa che si riverbera oltre, nella desolazione del non aver mai avuto,
ottenuto, meritato. Un percorso faticoso esplorato camminando i passi incerti
di una madre poco consapevole del proprio agire inadatto, e un figlio sul quale si
adombra una figura materna eccessivamente accudente, frustrante, ambivalente. Una madre non "sufficientemente buona", l’inconsapevolezza, gli scarti emotivi, la ridotta
comunicazione che sfocia con impeto nell’incomprensione più delirante.
Una
scrittura decisa quella di Azzurra de Paola, direi essenziale, a tratti feroce.
Un
libro nel quale credo sia inevitabile intercettare un po’ di sé.
E che sia in veste di genitore o di figlio, cambia davvero poco.
E che sia in veste di genitore o di figlio, cambia davvero poco.
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