Autore: EmanueleCislaghi
Edito da Giraldi
Editore
“Forse, disseminati nel mondo, non siamo
tanti. Forse, siamo solo uno. Forse, siamo solo un grande Io. Poliedrico,
policromo. Un unico, immortale, abitante dell’universo. Fin dalla notte dei
tempi, e per sempre. Forse, queste sono soltanto dieci facce, dieci storie, tra
le sue innumerevoli manifestazioni. Nell’intervallo di tempo di un secolo,
preso assolutamente a caso.” E. C.
Questo
esile testo è una raccolta di dieci “voci”, dieci racconti che rappresentano un
viaggio che abbraccia tutto un secolo, e che coagula drammi, suggestioni,
abbandoni, speranze nelle sue sole 66 pagine.
La
prima voce è quella di un luogo, il campo di concentramento di Dachau, che si fa pensiero e parola ripercorrendo con la memoria una strada dolorosa e consapevole, percorsa da uomini che
hanno visto e vissuto l’orrore di quel luogo ora divenuto un museo:
“Sei uscito, forse per
sempre, dalla mia porta. (…) Siamo cambiati molto in questi anni, nessuno più
di me sarebbe in grado di capirlo; qui dentro, invece, il tempo è un fossile
scolpito nella roccia. (…) Io, primo campo di concentramento nazista, nato a
Dachau il 22 marzo 1933, rimarrò sempre qui. Tra le rughe del tempo, fedele
alla mia natura di immortale.”
La
seconda voce è quella del ricordo di un amore riesumato da una vecchia
fotografia; non è chiaro se sia davvero un ricordo, una fantasia o un
desiderio rimasto inappagato:
“Raccolgo la tua
immagine dal pavimento. Ecco, il tuo ricordo risorge così, lucidissimo, come se
uno schiocco di frusta l’avesse rianimato di vita propria. Fuori, ormai lontana
anni luce, una pioggia severa cade sui tetti e sulle strade.”
Poi
è la volta di un grattacielo colpito da un aereo, vittima di un attentato, che si
racconta nella sua veste di gigante ferito; nel quarto racconto un semplice focolare
diventa il fuoco che aggredisce sé stesso, assale le sue vittime scatenando
nell’individuo che lo guarda e lo subisce, una paura che è sempre viva almeno
quanto la fiamma del falò.
Kindergarten è il quinto, ed è uno dei racconti che più mi ha colpito, quello di un bambino mai nato che narra
dal di dentro ciò che vede e che sente:
“E, all’improvviso, è
come un giorno pieno di sole, e ci sono tanti bambini, che ridono e si
divertono, e a me sembra già di conoscerli tutti. Non sono mai nati, non hanno
neanche un nome, ma hanno trovato anche loro un posto dove stare.”
E
poi ancora, un padre, un omicidio, un disturbo travestito da “troppo amore”;
una tredicenne carcerata chiusa non solo in una cella ma in un involucro di
non ritorno, di solitudine:
“Qui dentro, fin dal
primo giorno, mi hanno somministrato la medicina, e anche la malattia. Insieme,
nello stesso piatto.Cibo e veleno. Salvezza e condanna. La droga perfetta. Non
ne posso più… e non posso più farne a meno. Ecco, adesso lo so che cosa ho
trovato qui dentro, che cosa mi hanno dato… La cura giusta, per non
guarire.”
(La
sottolineatura è mia)
Nel
terzultimo racconto è la Madonnina del duomo a parlare mentre osserva il
brulicare di persone che passano frettolose e noncurante e non vedono il
senzatetto di cui lei e le sue parole si prenderanno cura. Nel penultimo si
racconta un kamikaze in preda alla sua follia fatta di violenza e di bisogno di
strage di carne innocente. Il 2077 è l’ultimo racconto, quello che chiude il
secolo, e narra di un viaggio interstellare alla ricerca di una nuova Terra
da abitare; il protagonista si ritroverà tra le mani un documento importante e
dentro di sé una sensazione nuova.
Emanuele Cislaghi è nato il 16 settembre del 1974 a Milano, dove vive e lavora. Nel 2009 ha pubblicato "Ascolta le mie voci", nel 2012 "Io ho ucciso"; recita in due compagnie teatrali amatoriali, ama la letteratura, il cinema, la musica, il tango argentino.
Credo
che la scrittura di Cislaghi sia semplice ma efficace, soprattutto quando
affronta tematiche per così dire emotive, quando c'è da calarsi in una dimensione più intimistica. Utilizza parole che colgono le confessioni e le confidenze di queste voci, senza fronzoli, orpelli, ma puntando a una concretezza sfacciata, a tratti atroce.
La sola cosa che mi lascia perplessa, non nei contenuti ma nella forma, è l’uso della punteggiatura; si passa dalla totale assenza, credo voluta al fine di dare
un ritmo incalzante e crescente al testo, all’eccessiva presenza di virgole e
puntini di sospensione. Non discuto lo stile, né le intenzioni, ma sono e resto una
tradizionalista dell’interpunzione che, diversamente, fatica.
Mea culpa.
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