lunedì 8 ottobre 2018

Io non c'ero (Recensione)


Titolo: Io non c’ero
Autore: Giuseppe Tomei
Edito da Aurora Edizioni




Piero, Marco e Massimo sono tre amici accomunati dall’amore che mettono nelle cose che fanno e che però, a un certo punto, per uno di loro diventa una propulsione insufficiente. C’è bisogno di aria nuova, di altre prospettive, di cambiamento. E lui lo fa raccogliendo i pezzi della sua vita e del suo amore per Elena, per poi trasferirli in un’altra città.
Ma è una madre quella che lascia, una terra col ventre spaccato che ha perso i suoi figli; Federico, il figlio di Massimo, ci torna controvoglia, almeno apparentemente, trovandosi davanti al rudere di quella che era stata la casa del padre, la sua vecchia roulotte nel garage con una foto consumata al suo interno. La desolazione, l’abbandono, il “marciume” e un solo unico punto di svolta: le erbacce, selvatiche e testarde, che resistono

“Venti minuti dopo l’autovettura si ferma in un piazzale di fronte ad una casa singola, separata dal resto del mondo da un’impalcatura, puntellata per tenerla stretta e unita come fosse ancora intera nonostante i gravi danni strutturali. (…)
Scende dal taxi, paga, prende le valigie e rimane da solo a fissare la dimora, una ragnatela di crepe sui muri, finestre rotte, polvere e abbandono, ferite non ancora cicatrizzate a dispetto del passare taumaturgico del tempo.
Inserisce quasi con scetticismo se non addirittura mancanza di fede la chiave nella toppa, l’uscio nonostante la sua diffidenza si apre, seppur cigolante e ormai male in asse sui cardini arrugginiti.
I raggi solari fanno luce sulla muffa verdastra che sporca le pareti interne, i mobili sono ancora tutti al loro posto ma l’umidità li ha resi fradici di marciume.
La grande finestra che dava sul giardino rivela la parte posteriore: un cumulo di macerie ricoperte da erbacce.”


Questo racconto, esile nello spessore ma robusto nei contenuti, è un insieme di tante cose. Tantissime.
È un ritornare alle origini, un reagire di fronte a degli eventi su cui non abbiamo né controllo né  predizione, l’incaponirsi della vita che vuol fare il suo corso nonostante tutto, il bisogno di guardare avanti senza dimenticare, perché è nel ricordo che resta depositata la vita.

Le cose normali, le frasi di tutti i giorni, non avevano più senso: è ora di colazione, fra dieci minuti ho un colloquio di lavoro, non vedo l’ora che arrivi la mia amante(grassetto mio) non vedo l’ora… qui nessuno guarda più l’orologio. Non avevamo il tempo (grassetto mio) a dirci cosa fare, si aspettava che scendesse semplicemente la notte, che facesse buio, spesso ubriachi, ridendo a voce alta, come per dimostrare che non avevamo paura o almeno che non ne avevamo più ma era una bugia, lo sapevamo e lo sapeva anche il buio.”




Classe 1971, attivo dal 1998 nel panorama letterario, teatrale e radiofonico aquilano. Per citare solo alcuni suoi lavori: nel 1998 pubblica “1848, UNA STORIA PRETURESE” insieme ad Agostino Ciccarella, libro-indagine; nel 2012 scrive e sceneggia la webserie “CONSONANTI”, per la regia di Francesco Paolucci, interpretata da Luca Serani; nel 2016 è autore di “RIGENERAZIONE”, atto unico interpretato da Simona D'Angeli e Giancarlo Curio con le musiche di Domenico Capanna e Giovanni D'Eramo, rappresentato presso l’Auditorium del Parco di L’Aquila; nel 2017 scrive e dirige “Donna e Dama”, rappresentato nell’ambito del cartellone della Perdonanza Celestiniana; dal 2017 è gestore e co-responsabile di SpazioRimediato, teatro off e polo culturale in L'Aquila, presso il quale organizza spettacoli teatrali, concerti ed attività formative rivolte ad adulti e bambini. 




Contrariamente alle aspettative, come Giuseppe ha spesso sottolineato, questo racconto non è il resoconto di un terremoto, o almeno non solo aggiungo io, ma di consapevolezze rafforzate o conquistate, di cose che cambiano, che si rompono e possono (o devono) essere riparate sebbene si vedano ancora le crepe, come cicatrici che restano. In questo racconto, il fatto critico che tiene insieme il prima e il dopo come il cardine la porta allo stipite, è un evento enorme che contiene in sé qualcosa di devastante, che incrina muri, schiene e progetti, che fa demordere e arrabbiare, che da forma alle paure. 
È un racconto che si sviluppa su un binario sul quale si avanza e si retrocede di molti anni, tra uno slancio verso il mutamento e la necessità, quasi fisica, di lasciarsi trattenere a terra da radici forti quanto esposte. 





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