Autore: Grazia Deledda
Edito da Studio Garamond (marchio registrato da Edizioni della Sera).
“L’indomani mattina
Giovanna fu la prima a svegliarsi: dal vetro infisso nella porta penetrava un
roseo barlume d’aurora, e nel silenzio mattutino si udivano garrir le rondini.
Appena svegliata, la
giovine provò un senso di dolcezza, ma tosto le parve che un rombo di tuono
fortissimo l’avvolgesse. Ricordava.
Quel giorno doveva
decidersi il destino del suo sposo.”
Quella
che ci racconta la Deledda è la storia di un amore contrastato tra il contadino
Costantino Ledda e la giovane Giovanna Era, sposati e subito divisi da una
condanna, pesante e ingiusta, ai danni dell’uomo. Lui, recluso e avvilito,
decide di mantenere vivo il rapporto con la sua sposa attraverso una “costosa”
corrispondenza:
“Durante l’ora d’aria
Costantino poté conoscere un suo compatriota, un sardo, che veniva chiamato il re di picche (grassetto
mio in sostituzione al suo corsivo) forse perché aveva una figura
triangolare, con un grosso corpo e due piccolissime gambe sottili; paffuto,
pallido, si faceva radere i capelli in modo da parere calvo. (…) Egli era
addetto all’ufficio degli scrivani; potendo quindi comunicare con l’esterno
favoriva certe corrispondenze clandestine dei condannati coi loro parenti, e
riusciva ad introdurre nello stabilimento danari, tabacco, francobolli, liquori,
profittandone largamente.”
Ebbene,
i tentativi del recluso di mantenere un contatto con la sua sposa, e con un mondo chiuso fuori al quale è stato sottratto all'improvviso, viene reso vano
dall’intrepido Brontu Dejas che prende in sposa Giovanna, resa libera dall’accesso
alla pratica del divorzio. Tuttavia, sarà un matrimonio molto breve grazie alle
simmetrie situazionali, alle quali la Deledda fa spesso ricorso, per cui il giovane Dejas avrà
in eredità la stessa sorte del padre, e Giovanna un destino diverso.
La
trama di questo romanzo, che si può definire etnografico, prende forma in un
periodo storico decisamente importante ovvero quello in cui si affaccia la
proposta di legge sul divorzio. La Deledda, al fine di adeguare il romanzo al quadro
normativo, benché fosse rimasto inalterato negli anni, lo revisionò nel 1920 (la prima
stampa risale al 1902). Questa rivisitazione in realtà porta in sé e con sé molto di più; la
Deledda scrisse e pubblicò questo romanzo in
seguito a degli importanti e definitivi cambiamenti avvenuti nella sua vita ovvero il matrimonio
con P. Madesani e il trasferimento definitivo a Roma, le cui sofferte ripercussioni possono essere rintracciate nei tratti malinconici e severi dell’ingiusta reclusione del
personaggio. Inoltre, v'è una forte
ambivalenza tra la denuncia di un’evoluzione normativa, di un passo enorme
verso il riconoscimento di un diritto e, di contro, il forte legame alla
tradizione, in questo caso sarda, sia nell’uso del linguaggio che nelle
descrizioni dettagliate dell’entroterra isolano:
“C’era un bosco di
soveri* (*quercia da sughero, n.d.C.), di cisti e di
corbezzoli; su questo pareva fosse piovuto del sangue. E un odore, caro mio, un
odore così forte che pareva di tabacco. Bada, c’è una croce sopra una pietra;
si vede il mare lontano.”
“Faceva freddo; non
spirava vento, ma l’aria era tagliente, e un silenzio indescrivibile regnava
nella grande valle selvaggia, accresciuto, anziché rotto, dalla voce monotona
di qualche torrente. L’erba invernale, corta e d’un verde intenso, incipriata
di brina, copriva le chine di qua e di là dai sottili sentieri bruni; il musco
umido odorava sulle rocce, e le macchie verdi stillavano brina: una freschezza
ringiovaniva la valle; ma i radi alberi contorti e brulli sorgevano, a grandi
intervalli, come eremiti nudi, espostisi per penitenza al freddo e alla luce
dell’aurora. Nei seminati la terra era nera, umida; e la linea delle muricce,
lunga, infinita, coperta di musco, saliva e scendeva serpeggiante: guardata
dall’alto sembrava un enorme verme verde.”
Ascolto
una melodia potente sprigionarsi da queste descrizioni. Periodi lunghi, ricchi
di segni d’interpunzione che, tuttavia, non gravano sulla rappresentazione
scenografica, non appesantiscono la narrazione ma ne definiscono il ritmo e l’intensità.
Un
ultimo sguardo lo volgerei sul “finale aperto”, molto lontano da quello
riportato nel testo dell’Epilogo che
trovò De Michelis quarant’anni dopo l’edizione inglese del 1905, per la quale tra l'altro era stato esplicitamente richiesto un happy
end. Nella versione rivisitata nel 1920 mancano alcune pagine di apertura
che riportavano una citazione dal Vangelo: “E dopo che l’avranno flagellato lo
uccideranno… Ed essi nulla compresero di tutto questo”. (dal Vangelo di Luca,
XVIII 34), che tuttavia, nonostante il taglio al testo, sono in qualche modo riprese, e mal velate, nelle pagine del romanzo:
“Quei cani rabbiosi ti hanno preso e legato,
e non ti lasceranno più andar via. E la nostra casa resterà deserta, e il letto
sarà freddo, e la mia famiglia andrà dispersa. Bene mio, agnello mio, tu sei
morto per il mondo, così siano morti coloro che ti hanno legato!”
Nonostante
la Deledda abbia tolto tale epigrafi dal romanzo, e in alcuni tratti ne abbia
modificato la trama così come pure il titolo originario, le caratteristiche psicologiche dei
personaggi e alcuni passaggi denunciano una forte presenza di caratteri
cristiani.
Grazia Deledda |
Credo
che ci sia ancora molto da scoprire e da comprendere delle opere di questa
scrittrice così ingiustamente trascurata così come credo che questa edizione, pubblicata da Studio Garamond, marchio di Edizioni della Sera di Stefano Giovinazzo (curata da Renato Marvaso e
presentata da Aldo Maria Morace), non sia stata soltanto ben fatta ma anche
necessaria.
Nessun commento:
Posta un commento